sabato 18 novembre 2017

Il silenzio dei colpevoli

Uno studio dell'Università di Zurigo, pubblicato cinque anni fa sulla rivista Annals of Epidemiology, diceva che "la morte preferisce i compleanni". L'analisi, effettuata sulle statistiche di 40 anni di decessi in Svizzera (2,4 milioni di persone), arrivava alla conclusione che le morti avvenute nei giorni di compleanno sono state il 13,8% in più rispetto a qualsiasi altro giorno dell'anno. Chiedere per informazioni a William Shakespeare o Ingrid Bergman.
Perché succede? Naturalmente è fortissima la componente del caso. Ma non solo: il fattore di rischio sale al 18% tra gli ultrasessantenni, a volte legato a una serie di tendenze psicologiche che favorirebbero il decesso, soprattutto tra gli uomini e gli anziani.
Ci si lascia andare alla tristezza, pare. Oppure, al contrario, c'è la "teoria del rinvio": resistere almeno fino al giorno del proprio compleanno e poi magari abbassare le difese. Questo, scrivevano gli studiosi svizzeri, capita in generale tra le persone gravemente ammalate. E poi ci sono quelli che muoiono pochissimi giorni prima o pochissimi giorni dopo il compleanno, naturalmente.
Insomma, un po' è il caso, un po' anche le coincidenze hanno un fondamento scientifico.
Dunque: un uomo, anziano, gravemente ammalato. Degnamente e dignitosamente assistito, peraltro. Ecco, Totò Riina stava per morire il giorno del suo compleanno. E invece, lui che se ne è sempre fregato di qualsiasi regola e non ha mai avuto rispetto per nulla in vita, ha fatto a modo suo anche in punto di morte, rinviando di un giorno. Giusto in tempo per ricevere gli auguri social del figliolo. Perché alla fine i Riina si lamentano e chiedono silenzio, ora. Silenzio, cioè la parola d'ordine della filosofia mafiosa dell'omertà. Chiedono silenzio però usano Twitter e Facebook per rivendicare un orgoglio di famiglia di cui francamente faremmo un po' tutti volentieri a meno.
Io, da parte mia, non dico altro sulla morte della belva di Corleone, criminale e stragista. Vogliono il silenzio? Lo avranno, se proprio ci tengono. Una forma singolare di garantismo... Ma non è oblio. Possiamo anche non parlarne più, signori Riina-Bagarella, ma star zitti non vuol dire dimenticare. Io continuerò a ricordare tutto lo schifo che ha commesso.
E ricorderò una persona straordinaria che al contrario è morta effettivamente il giorno del suo compleanno. Si chiama don Pino Puglisi. Lui è beato, Riina invece non avrà i funerali in chiesa. Giusto così, questo è l'unico silenzio che merita un boss.

lunedì 6 novembre 2017

Status qui pro quo

Dunque, qualche domanda, per quanto retorica.
Se alle regionali in Sicilia vince il centrodestra, però per governare ha bisogno dei voti di parte del centrosinistra, la colpa è della sinistra?
Se il Movimento 5 Stelle è il primo partito ma non riesce a governare, la colpa è solo della legge elettorale?
Se il centrosinistra perde malamente (perché - spoiler - HA PERSO), la colpa è del presidente del Senato che non si è voluto candidare, facendo "perdere tempo" alla coalizione?
Se a Matteo Renzi non è mai fregato granché della Sicilia, e di buona parte del Sud in generale, la colpa è solo ed esclusivamente del Sud e della Sicilia?
Se l'anonimo candidato di centrosinistra Fabrizio Micari ha perso, la colpa è del candidato di sinistra Claudio Fava e del governatore uscente Rosario Crocetta, nonostante Micari avesse designato il suo stesso assessore al Bilancio imposto da Roma?
Perché quasi nessuno ha parlato di immigrazione in campagna elettorale, nonostante la collocazione, non solo geografica, della Sicilia?
Perché anche la mafia è rimasta il solito convitato di pietra, nonostante Nello Musumeci abbia riproposto una vecchia frase di Paolo Borsellino e la sinistra abbia candidato il vicepresidente della commissione Antimafia?
Insomma, tutte queste domande hanno già tutte una risposta abbastanza chiara, appunto retorica. Quindi è piuttosto singolare che in questo continuo ping pong, tra rimpalli di responsabilità e pretese di aver vinto (in Sicilia, più ancora che in Italia, nessuno perde mai davvero alle elezioni...), nessuno dica l'unica vera verità: è successo quel che si sapeva sarebbe successo.
Perché Musumeci sarà pure una brava persona, ma dietro c'è Gianfranco Miccichè, architetto di qualsivoglia alleanza post-elettorale in Sicilia. Cinque anni fa furono i centristi-autonomisti di Miccichè a garantire la maggioranza all'Ars al sinistro Rosario Crocetta, ora saranno i centristi-moderati di alcune liste di centrosinistra a tappare quei piccoli buchi che separano Musumeci dal governare con relativa tranquillità.
Vero che il trasformismo lo "inventò" il lombardo Depretis, ma è con l'agrigentino Francesco Crispi che raggiunse grandi e ineguagliate vette. Se dall'Ottocento la Sicilia è la terra che più di tutte codifica la logica del ribaltone, milazzismo compreso, non c'è allora da meravigliarsi se anche stavolta andrà così. D'altra parte, forse il Pd se l'è dimenticato, ma le giunte regionali dell'impresentabile Lombardo si sono rette sulla convergenza del centro-sinistra (col trattino).
Sarà la mutazione genetica, sarà la retorica nuovista del renzismo, sarà quel che si vuole, ma se il centrosinistra perde in alleanza con Angelino Alfano, è mai possibile che da quelle parti non si faccia autocritica e anzi si imputi la sconfitta ad altri, persino alla seconda carica dello Stato, per Costituzione il vicepresidente della Repubblica? L'elettorato siciliano, lo disse non troppo tempo fa lo stesso Alfano, è tendenzialmente di centrodestra. Quindi, morale finale, la colpa è della sinistra...

venerdì 3 novembre 2017

Sei gradi di separatismo

Il re Federico, l'aquila sveva, la scuola poetica, il Vespro, Ruggero II, i separatisti del Dopoguerra, il 1848, la Trinacria e le bandiere giallorosse. Persino una (bellissima) maglia di una ufficiosa nazionale di calcio.... C'è tutto questo e anche altro nella simbologia che uno dei partiti in corsa per le regionali, il movimento Siciliani liberi, prova a spendere per raccogliere voti in una terra, appunto la Sicilia, che ogni tanto riscopre, intimamente e pubblicamente, il suo animo indipendentista.
Lasciamo perdere la campagna elettorale, però. Qualche giorno fa, il nome del movimento Siciliani liberi ha avuto una piccola ribalta non solo nazionale ma persino internazionale. Il suo leader e candidato presidente della Regione, Roberto La Rosa, ha fatto sapere che se diventasse governatore darebbe «asilo politico a Carles Puigdemont (il presidente catalano destituito, ndr), assolutamente sì», anzi glielo darebbe da subito, «perché noi siamo solidali coi catalani, che come noi stanno portando avanti una lotta per l'indipendenza col metodo gandhiano».
I sicilianisti sono stati in effetti tra i primi, tra i pochissimi al mondo in verità, a riconoscere l'indipendenza catalana, insieme ad alcuni sardi e a qualche aspirante repubblica del Caucaso, come l'Abkhazia e l'Ossezia del Sud. Sul sito del movimento Siciliani liberi campeggia, tra i riferimenti storici, anche la bandiera del fu Evis, l'Esercito volontario per l'indipendenza della Sicilia creato nel febbraio 1945 da Antonio Canepa, il braccio armato fiancheggiatore del Mis (Movimento per l'Indipendenza della Sicilia). I colori di quella bandiera somigliano notevolmente alla Estelada, il vessillo separatista della Catalogna, con le stesse quattro bande rosse su fondo giallo mutuate dal simbolo della Corona d'Aragona.
Quel che è curioso è che, alla fine, appena sbarcano in Sicilia tutti i partiti nazionali riscoprono il grande mito dell'autonomia. Non ultimo Beppe Grillo che ha addirittura fatto un parallelo proprio con la Catalunya: «Il mondo va verso il decentramento, che è il futuro della democrazia. Con lo Statuto speciale qui si possono fare cose che noi in Italia non possiamo fare, qui si può sperimentare il futuro».
Morale: son tutti siciliani, con l'autonomia degli altri.

giovedì 2 novembre 2017

Liste ciniche

Facciamo così: liquidiamo, in senso buono, subito il quinto su cinque. Non ce ne voglia, non è mancanza di rispetto. Anzi. Il quinto, inteso come candidato alle elezioni regionali siciliane, è Roberto La Rosa. Autonomista, anzi indipendentista, alla testa del movimento Siciliani liberi, il quinto incomodo che prenderà circa l'1%. "Talmente piccolo che avremmo potuto anche non invitarlo", gli ha detto con sorprendente indelicatezza Lucia Annunziata durante il confronto televisivo con gli altri candidati. Comunque è giusto segnalarne la presenza. Adesso ha anche ottenuto il sostegno di parte dei Forconi, che prima sembravano orientati a schierarsi in massa con il centrodestra (quasi) unito dietro Nello Musumeci.
Dunque, almeno la candidatura di Roberto La Rosa ha il pregio della chiarezza. La faccia, il nome, il movimento, il simbolo, lo slogan. Tutto chiaro, senza particolari equivoci.
Partiamo da lui, dall'outsider, proprio perché sembra che gli altri, al contrario, vogliano lasciare qualche dubbio. Questa riflessione nasce dai manifesti elettorali dei cinque candidati presidente. E dalla centralità delle persone rispetto all'assenza dei partiti. A parte La Rosa, è singolare che il "partito" più radicato sia ormai il Movimento 5 Stelle, il cui simbolo infatti, ovviamente, campeggia sui manifesti di Giancarlo Cancelleri. In questo caso l'identificazione tra movimento e candidato-portavoce è assoluta, totale, totalizzante.
Invece mi ha colpito, forse anche perché l'ho visto di persona, il manifesto elettorale di Fabrizio Micari. Criptico, non so quanto volontariamente. Un slogan apparentemente inoffensivo ("La sfida gentile") e la totale assenza di simboli di partito. Molti ritengono che una chiave fondamentale del voto siculo risieda nella possibilità del voto disgiunto e ciò spiegherebbe la strategia di andare a intercettare delusi e disillusi di tutti gli schieramenti. Già Micari è poco conosciuto, se poi nessun simbolo di partito campeggia nei suoi manifesti... è difficile che sia identificato come il candidato del centrosinistra.
Un po' diverso, ma solo in parte, il discorso per i due candidati rimanenti, Nello Musumeci (centrodestra) e Claudio Fava (sinistra). Diverso perché sono gli unici due politici di lungo corso in lizza per la presidenza della Regione, e quindi perfettamente riconoscibili come l'uomo di destra e quello di sinistra, indipendentemente dai simboli sui loro manifesti. E quali sarebbero, poi, questi simboli?
Nessuno, nel caso dell'ex presidente della provincia di Catania. Anzi. La strategia comunicativa di Musumeci cerca platealmente di smarcarsi dalla politica dei partiti, tra hashtag, slogan efficaci per quanto contraddittori (è per esempio uno straordinario sofisma il motto #noslogan...), una furba personalizzazione. "L'unico pizzo che piace ai siciliani".
Così come Musumeci non ha simboli di partito sui suoi manifesti, anche Claudio Fava, candidato della sinistra... a sinistra del Pd. L'unico simbolo è quello della sua coalizione, "Cento passi per la Sicilia", un'altra evidente personalizzazione politica, essendo stato lui tra i soggettisti/sceneggiatori del bellissimo film di Marco Tullio Giordana su Peppino Impastato.
Morale: come sempre la Sicilia prova ad anticipare tendenze politiche nazionali. Fingendo che contino più le persone dei partiti. Quando invece lo sanno tutti che gli elettori vanno a votare soprattutto per il "loro" consigliere regionale... In quel caso sì che conta pure il simbolo del partito.

domenica 29 ottobre 2017

Beppe Grasso e Pietro Grillo

Diceva Beppe Grillo, correva l'anno 2013, intorno a metà marzo, che la candidatura di Pietro Grasso a presidente del Senato era una "trappola" del Pd per il Movimento 5 Stelle. La linea ufficiale degli inflessibili pentastellati, appena entrati nelle stanze del potere politico nazionale, era di non votare nessuno, ma 18 senatori si ribellarono all'idea che potesse essere confermato alla seconda carica dello Stato il forzista Renato Schifani. I più duri, in questo senso, furono alcuni senatori siciliani. Che ora, guarda caso, non stanno più dentro il M5S ma sono finiti a sinistra...
Per Grillo era allora più importante il rispetto pedissequo dei dettami del blog, per la politica era ancora presto. Ora invece, riassumendo quattro anni e mezzo di giravolte e contraddizioni, pare che la politica sia più importante. Chiamatela politica, oppure realismo, oppure persino Realpolitik, ma alla fine anche Grillo e i suoi sembrano essersi resi conto che non esiste solo la virtualità della presunta democrazia diretta del web. Con le elezioni regionali alle porte in Sicilia, il Movimento 5 Stelle sembra aver aperto la caccia ai voti di sinistra o centro-sinistra che il Pd, in teoria perlomeno, dovrebbe perdere dopo l'abbandono del presidente del Senato, appunto quel Pietro Grasso più volte attaccato sul sacro blog, in una sorta di lotta tra fazioni dell'antimafia, e definito financo «grigio funzionario governativo incaricato di fare del regolamento [del Senato] stracci per la polvere».
Il travaso di voti dal Pd verso sinistra è nell'ordine delle cose già da prima dell'uscita di Grasso dal partito, vuoi per la gestione delle candidature vuoi per l'eredità dell'improbabile presidenza Crocetta. Ma è indubbio che qualcuno potrebbe avvantaggiarsi dalla mossa di Grasso, e tra i grillini si spera di rubare questi eventuali voti di delusi all'altro candidato che potrebbe intercettarli, cioè Claudio Fava con le sue liste di sinistra contrapposte al Pd. E questo perché al Movimento rischia di venir meno il grande bacino di voti del centrodestra...
Naturale evoluzione: dall'antipolitica all'antimafia all'antitesi. Di se stessi.

domenica 22 ottobre 2017

Capra e cavolate


Provocazione? Offesa? Gaffe? Stereotipo? "Razzismo"? Questa immagine è tutto questo e anche altro. O forse niente di tutto ciò. Che la rivista francese Auto Moto Magazine pubblichi un video di presentazione della Skoda Karoq facendo un bel giro in Sicilia, e che nel medesimo video, accompagnato dalla colonna sonora del Padrino, un omino smilzo con la fronte molto spaziosa apra il bagagliaio e mostri un uomo incaprettato e dica "In Sicilia si fa così" (la location è Corleone), beh forse vuol dire solo che i cuginetti hanno perso l'ennesima occasione per non fare una figura di merda. Noi, siciliani e italiani, abbiamo tutto il diritto di incazzarci e sentirci offesi, vilipesi, insultati.
"In Sicilia si fa così". Da noi, secondo questi francesi, si incaprettano cristiani come prassi quotidiana. Chissà che ne pensano i cèchi della Skoda a essere associati a questo contorto spot anti-italiano...
"In Sicilia si fa così". Odio rispondere ai pregiudizi con i pregiudizi. Ma ricordo ancora di aver letto, saranno passati forse 25 anni, una terribile notizia che arrivava da Le Mans: un gruppo di ragazzacci di periferia che giocava a pallone con un sacchetto di plastica con dentro il feto di una neonata. Orribile. Schifoso. Ma nessuno si sognò di dire che "in Francia si fa così". Certo, è facile la controreplica: quelle abitudini siciliane sono quelle della mafia. Già.
Ora però guardiamo quest'altra immagine. Sono i graffiti della grotta dell'Addaura, a Palermo, databili tra la fine del Paleolitico e l'inizio del Mesolitico. Non visitabili, purtroppo. La scena più discussa è quella al centro: la maggior parte delle interpretazioni, per farla breve, dice che si tratti di una scena di incaprettamento, molto probabilmente una cerimonia rituale sciamanica.
C'era la mafia nella preistoria?
Ecco, il punto è questo. L'incaprettamento (termine attestato in italiano anche nei dizionari specialistici inglesi) è questa terribile modalità di assassinio appunto tipica della mafia siciliana, che consiste nel legare la vittima in tal modo che sia essa stessa ad auto-strangolarsi... Però anche altrove, in particolare in alcune aree del Sud-Est asiatico, si utilizzano metodi di morte simili. Allo stesso modo verosimilmente derivanti da macabri forme rituali del passato, più o meno remoto.
E quindi, cari francesi, "in Sicilia si fa così"? Sapete cos'altro si fa in Sicilia? Si snobba con un assordante e plateale silenzio chi merita di essere ignorato. E io ho già parlato troppo...

sabato 30 settembre 2017

Quello che passa (l'ex) convento

Non mi intendo molto di arte, ma sono ugualmente un assiduo frequentatore di musei e mostre, negli ultimi tempi specialmente di arte contemporanea. E non posso negare che mi piace tanto scoprirla anche in luoghi impensati e/o impensabili. La mia Modica, città di cui mi vanto, è ormai da tempo inserita nei circuiti turistici, più o meno organizzati. Ma poiché detesto tutte le retoriche, provo fastidio anche per gli stereotipi turistici, per i luoghi comuni all inclusive. Modica, per esempio, è oramai entrata in un vortice auto-promozionale che riduce tutto a una triade spesso confusa: il barocco, il cioccolato e il commissario Montalbano (sic). Storia, arte, tradizioni, e un pizzico di finzione letteraria (anzi televisiva). Tutto molto siciliano, effettivamente. Però così sembra che non ci sia altro. E invece no.
Il terremoto del 1693 distrusse quasi tutto, pochissimo è rimasto dell'epoca pre-barocca. E questo poco sta ritrovando una vita anche grazie agli abusati "linguaggi del contemporaneo". Parliamo della chiesa di Santa Maria del Gesù con annesso chiostro, isolata testimonianza a Modica del tardo gotico, risparmiata solo in parte dal terremoto che rase al suolo il Val di Noto. Il complesso è stato a lungo interdetto alle visite, solo negli ultimi anni è stato via via riconsegnato alla cittadinanza. Fino al 23 maggio 2014 ha ospitato la casa circondariale, che in tempi neanche troppo lontani ricadeva pure negli spazi della ex chiesa e del chiostro mozzafiato. Ora il carcere non c'è più e finalmente il complesso è interamente fruibile.
Rispetto all'altra unica volta che lo vidi, sei anni fa, quello che ho visto ieri è un luogo nuovo (e più pulito...), una nuova scoperta, una piacevole sorpresa, la restituzione di un bene storico ricontestualizzato nel nostro tempo. Fa parte infatti dei percorsi organizzati in questi mesi a Modica dal MAS (Modica Art System). Installazioni, proiezioni, suoni, laboratori didattici, artisti italiani e stranieri: un risveglio culturale che fa bene a tutti, oltre gli stereotipi e la comoda assuefazione all'incipiente turismo di massa – nella città che già ospita da dieci anni una delle gallerie d'arte contemporanea più quotate tra quelle emergenti, la Galleria Laveronica.
Ieri, a Santa Maria del Gesù, era la giornata conclusiva di presentazione dei progetti del MAS, realtà che riunisce la Fondazione Teatro Garibaldi, il Museo Civico Franco Libero Belgiorno e il CoCA (c.enter o.f c.ontemporary a.rts).
Genuardi Ruta,
Supercella SS115
Concetta Modica,
Ora/Oggi/Adesso
(2017, terracotta, corda,
reperto archeologico, semi)
Alcune opere – ripeto, parlo da profano – mi hanno colpito, dentro quegli ambienti. Come i suoni profondi e "naturali" che rompono il "naturale" silenzio del chiostro. O l'uso sapiente, e sempre in evoluzione, della luce come strumento artistico e di ricerca. O, appunto, il dialogo tra passato presente e futuro.

sabato 23 settembre 2017

Aiutiamolo a casa loro

Per favore, smettetela di dire che l'autonomia della Sicilia è troppo, un privilegio insopportabile e insostenibile. Non è così, stando perlomeno a uno dei mini spot elettorali che spopolano sui social della Lega Nord Lombardia. No, a noi siciliani la nostra autonomia non basta, se addirittura la Lega mette in rete un video di un minuto il cui protagonista è un presunto siciliano, una macchietta che in una specie di dialetto esprime la sua volontà di votare anche lui il 22 ottobre per l'autonomia lombarda.
La scena. Interno giorno. Una biondona occhialuta e cappelluta davanti a un aperitivo rustico con tanto di ombrellino démodé nel bicchiere, e poi lui, il siculo con camicia aperta ad altezza ombelico e catenona d'oro d'ordinanza. Una coppia "mista" di mezza età, un'accoppiata grottesca meneghina/siciliano ché pare di rivedere il capolavoro di Lina Wertmüller Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto, ma solo per i pesanti e risibili stereotipi. Lei – borghesona che pretende di essere elegante – non è Mariangela Melato, lui – proletario buzzurro e ignorante – non è Giancarlo Giannini. E non solo per la discutibile qualità recitativa...
Ma questo è solo uno dei tanti video che la Lega ha preparato per il referendum di ottobre, pur omettendo – chissà perché – il logo del partito. Tutti recitati in dialetto, alcuni piuttosto discutibili, compreso quello che ironizza sul cavalcavia crollato un anno fa nel Lecchese (un morto e sei feriti). Sketch da teatro dialettale o da sagra di paese. Scene grottesche, non proprio corti d'autore.
Quindi c'è anche il siciliano da barzelletta. Che chiede alla sua "bella" dove si vota e le spiega, appunto in un improbabile siciliano, che vuole votare al referendum perché «a mia 'u travagghiu e 'u pani m'u detti 'a Lombardia». Il lavoro e il pane gliel'ha dati la Lombardia. Aiutiamolo a casa loro.

martedì 19 settembre 2017

Nathan, abbiamo un problema

«Alcuni migranti in fuga dalla guerra raggiungono un'isola nel Mediterraneo. La prima settimana ne arrivano 100, poi ogni settimana il loro numero aumenta del 10 per cento». Accanto, la foto di un gommone carico di persone. Sembra una cronaca fredda, meccanica, cinica del fenomeno dell'immigrazione. Certo, "migranti in fuga dalla guerra" non è propriamente corretto, sarebbe stato più preciso "profughi", ma sui giornali si fa spesso confusione (talvolta volutamente). Come dite? Non è un articolo di giornale? Ah.
In effetti il testo continua. Si chiede «per quante volte viene moltiplicata una quantità quando aumenta del 10%?». Parla di «serie geometriche». Invita a «dedurre il numero totale di migranti giunti sull'isola dopo otto settimane, arrotondando all'unità». Affronta l'argomento come un fatto puramente matematico. E questo è, il testo.
Ma far diventare un simile dramma l'argomento di un problema di matematica per un libro del liceo, mi sembra quantomeno fuori luogo. Come fu vergognoso che due anni fa, su un libro di fisica in Italia, si chiedesse agli studenti liceali di calcolare l'impatto di un sasso dal cavalcavia su un'auto. Il problema di matematica è invece in un manuale della casa editrice Nathan per le scuole francesi. E qui sarebbe da chiedersi se il "cuginetto" che ha elaborato con dovizia di particolari tecnici e professionali il problema 93, a pagina 34 del manuale riservato all'ultima classe degli indirizzi economico-sociale e letterario, sia stato davvero così ingenuo (naïf?) o abbia sottovalutato le conseguenze di una gaffe del genere. "L'isola nel Mediterraneo" è indubbiamente Lampedusa; dubito si tratti della Malta intransigente che respinge navi con a bordo tre migranti...
Dopo le proteste e le polemiche, Nathan ha fatto mea culpa, ha ritirato il testo e dice che lo sostituirà gratuitamente. Speriamo si limitino ai soliti problemi sulla spesa al mercato. "Ahmed vende mele e arance...".

domenica 10 settembre 2017

Grazie che ha bevuto

Uno può leggere libri impegnati, guardare film d'autore, ascoltare musica di buon livello, ma poi alla fine, senza neanche scomodare l'alto-e-basso, Umberto Eco e la riscoperta delle culture e sottoculture pop, ci si diverte tutti con il trash, il grottesco, il comico demenziale. Tutti. Quando una decina di anni fa noi siciliani (ma non solo) scoprimmo tra le pieghe di una tv privata di Agrigento le mirabolanti e improbabili imprese, politiche e "culturali", di un barbiere che si chiamava Giovanni Bivona, ci sentimmo paradossalmente investiti del privilegio di avere finalmente anche noi il nostro "eroe" popolare-popolano-populista-pop. Era tutto finto e per questo ci piaceva, ma forse non solo per questo.
Partiamo purtroppo dalla fine. Da quel "si chiamava Giovanni Bivona". Verbo al passato perché Giovanni Bivona, ad appena 55 anni, è morto per una brutta malattia. E quando muoiono i giullari, le maschere comiche, persino le macchiette, c'è un pizzico di tristezza in più. Anche perché Bivona, che di mestiere faceva davvero il barbiere (regalava perle di saggezza nel suo salone in via Dante ad Agrigento), era sicuramente genuino e buono nella sua pur grossolana ignoranza che lo rendeva simpatico; e buono come sanno essere solo i buoni che si fanno prendere in giro e non si prendono sul serio.


«La politica è triste. Facciamola diventare allegra». «Protestiamo. Protestiamo. E protestiamo!». «Grazie che ho bevuto!». I tormentoni dello spot elettorale della primavera 2006 ormai li conoscono tutti. Si guadagnarono notorietà anche in tv e radio nazionali, che presero a sfottere l'approssimazione di Bivona senza rendersi conto che, in fondo, era lui a sfottere, più o meno consapevolmente, una certa retorica. Prese un discreto pacchetto di voti ma non fu eletto a quelle elezioni provinciali, candidato della lista Patto per la Sicilia, una delle tante para-autonomiste di quella stagione politica nell'Isola. Ma poi è diventato una piccola star, grazie all'intuito furbo di Angelo Ruoppolo e Lelio Castaldo di Teleacras, che lo lanciarono nel ruolo di improbabile e divertente commentatore dei temi più disparati, persino nella sua spassosa "rubrica e-letteraria" in cui smontava Dante, Leopardi o Shakespeare, lui che si era comunque autodefinito "Maestro di vita". Spettacolare nella pubblicità di un negozio di pelletteria, in cui sfoggiava una scarpa su una spalla. Surreale come Dalì a spasso con un formichiere per le strade di Parigi...
Inutile elencare tutte le imprese di Giovanni Bivona, ne è pieno YouTube. Ma è proprio su questo che voglio concentrare questo piccolo e inutile mio ricordo. Bivona è diventato famoso soprattutto con il passaparola. Ancora non eravamo del tutto schiavi dei social network e la voce - quasi carbonara - circolava su forum e blog, o più semplicemente tra amici (reali e non virtuali); c'era pure chi suggeriva di scaricare i suoi video su eMule! Non c'erano influencer a consigliare i suoi video, né twitstar a sponsorizzarlo, ma nemmeno finì nel tritacarne della Gialappa's, per dire.
In questa specie di preistoria Giovanni Bivona ha fatto quasi tutto da solo. E ci ha rallegrati con la sua protesta, altro che i grillini. Beviamo alla sua salute. Grazie.

martedì 29 agosto 2017

Scusate per l'interruzione

Da giorni mi risuonano martellanti in testa questi versi: «il loro capo Ottavio Navarra / è stato eletto adesso sta a Roma / si è comprato un vestito decente / ma dentro ha ancora più rabbia di prima». Sono versi di una canzone dei Modena City Ramblers, La banda del sogno interrotto, dedicata a "una Sicilia che non c'è" (dall'album La grande famiglia, 1996). Quelle parole insistono nella mia mente da quando ho letto il nome di Ottavio Navarra, fondatore dell'omonima casa editrice, nelle recenti cronache politiche siciliane. È lui il candidato di Rifondazione comunista e Possibile a presidente della Regione. E non intende fare un passo indietro (a meno di improbabili unità ritrovate), dopo le solite manfrine a sinistra, tra Pd+alfaniani, crocettiani, bersaniani, dalemiani, pisapiani, convergenze di qui e di là, candidature alternative come quelle di Claudio Fava per conto di Mdp. Insomma: il solito bestiario di correnti, sigle, antipatie che anima la sinistra italiana (anche quella, in forma di partito, con la 'S' maiuscola...), in Sicilia esplode come attività magmatica.
E qui tornano le parole dei Modena City Ramblers. Chi è Ottavio Navarra? Di chi era "capo"? Quella canzone, spiegò il gruppo, era "dedicata a dei ragazzi di Palermo, conosciuti alla festa di Cuore nel '93, che malgrado le avversità continuano a lottare...". Navarra, originario della provincia di Trapani, è stato uno dei fondatori della Pantera, il movimento studentesco che dall'autunno 1989 si è esteso dalla facoltà di Lettere di Palermo al resto delle università italiane. Ottavio era uno dei leader di quel "nuovo '68". Tante battaglie politiche e civili, è stato anche corrispondente de L'Ora da Marsala, giovanissimo è stato eletto in Parlamento con i Democratici di Sinistra. Nel 1994, a 28 anni. E, appunto, «si è comprato un vestito decente / ma dentro ha ancora più rabbia di prima».
L'esperienza romana durerà poco ma poi inizierà quella regionale all'Ars, comunale a Marsala, e nella segreteria dei Ds al fianco, guarda un po', di Claudio Fava... Poi basta politica partitica, via con la scommessa della casa editrice e avanti con l'impegno sociale e culturale antimafia. Ora invece un ritorno inatteso su una scena politica dove il contrario dei sogni interrotti è una realtà da incubo.
Il quadro era chiaro già ai Modena City Ramblers. Ventuno anni fa.
Hanno sfilato in manifestazione, / raccolto distratta solidarietà / hanno pianto Falcone e gli altri, / hanno guardato sbarcare i parà / volantinato Zen e Acquasanta / e non so quanti altri quartieri / intanto il governo ha sbloccato gli appalti / e la mafia riapre i cantieri /
Non so se noi ne avremo il coraggio, / se prenderemo la via del nord / o meglio ancora via dalle palle, / fare in culo a tutti voi / perché nella banda del sogno interrotto / non sono molti i fortunati / sono in tutto quaranta persone / di cui trentotto disoccupati

sabato 12 agosto 2017

Gli ordini di Malta

Io forse mi sbaglio, ma rimango più o meno della mia idea: tra tutti i Paesi vicini all'Italia, nostri partner europei, l'inflessibilità di Malta nella crisi migratoria fa anche un po' male. Attaccarsi a (spesso) generiche questioni di principio quasi con pignoleria, beh, lo trovo eccessivo rispetto agli sforzi enormi dell'Italia. L'impressione mi è tutto sommato rimasta pure dopo aver intervistato su Quotidiano Nazionale Carmelo Abela. Un nome che tradisce indubbiamente ascendenze siciliane ma appartiene all'attuale ministro degli Esteri della Valletta...
In un passato neanche troppo lontano, il partito laburista di Malta era storicamente filo arabo. I tempi sono cambiati. Da quattro anni i laburisti sono al governo: un partito appartenente alla famiglia del socialismo europeo (come il Pd) che batte il tasto su una gestione rigorosa dei fenomeni migratori, non solo sulla tradizionale solidarietà ‘di sinistra’. Carmelo Abela, 45 anni, in Parlamento dal 1996, è stato per tre anni ministro degli Interni. Dallo scorso giugno è passato agli Esteri. Continuando ad affrontare il dossier immigrazione. 
L’Italia ha varato nuove regole per le Ong che effettuano operazioni di soccorso nel Mediterraneo. Per esempio ‘Proactiva Open Arms’, la cui nave Golfo Azzurro è stata respinta dalle autorità maltesi. Avete deciso di essere inflessibili? Ma non è contro le regole del diritto internazionale?
«Le leggi che regolano i soccorsi e gli sbarchi sono quelle stabilite dalla Convenzione dell’Onu sul diritto del mare. Malta si adegua rigorosamente al diritto internazionale, che prevede che le persone soccorse in mare debbano essere portate nel porto sicuro più vicino. In questo caso l’Italia, a Lampedusa. Per noi non era una questione di numeri (3 migranti a bordo, ndr) o di chi ha effettuato il soccorso, ma di principio».
Però la Guardia costiera italiana insiste: i soccorsi in mare sono un obbligo. Sulle coste della Sicilia arrivano migliaia di persone che scappano da guerre, persecuzioni, povertà. 
«Naturalmente siamo d’accordo che i soccorsi siano un dovere, ma il caso della Golfo Azzurro riguardava piuttosto il rispetto del diritto internazionale, per quanto riguarda il porto di sbarco». 
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Malta è un piccolo Paese, ma è indubbiamente il vicino più prossimo dell’Italia. Ed entrambi sono Paesi membri dell’Ue. Non crede che l’Italia sia stata lasciata sola? 
«Malta è il Paese più vicino all’Italia, non solo geograficamente ma anche in termini di solidarietà. Abbiamo sempre ritenuto necessaria la relocation, la ricollocazione dei migranti, anche quando c’erano meno sbarchi di adesso. Partecipiamo con le nostre forze navali alle operazioni di Frontex in Italia e Grecia. E inoltre nel 2016 siamo stati il quarto Paese Ue per richieste d’asilo pro capite. Ne abbiamo ricevute 1.900; in proporzione è come se l’Italia ne avesse avute 265mila... Malta non ha fatto nulla per bloccare l’ingresso di migranti, non abbiamo chiuso i confini come altri Stati Ue». 
Perché tutte le navi, comprese quelle che dipendono da Ong straniere, devono raggiungere l’Italia? Non è come se Malta avesse chiuso i suoi porti, come hanno fatto Francia e Spagna? 
«Ribadisco che noi non abbiamo chiuso i porti. Né facciamo distinzioni fra Ong o altre navi. Quando si tratta di sbarcare persone soccorse in mare, ci atteniamo al diritto internazionale. Le operazioni di soccorso avvengono appena fuori dalle acque territoriali libiche; il porto più vicino non è Malta, ma Tunisi o l’Italia». 
La prima Ong ad aver firmato il codice di condotta del governo italiano è stata la maltese Moas. Che cosa ne pensa?
«Il codice è puramente una negoziazione bilaterale tra l’Italia e le Ong, nessun altro Paese è stato coinvolto. Quindi non posso commentare, a parte evidenziare che non ha alcun effetto sul modo in cui Malta adempie i suoi obblighi internazionali. Nello specifico del Moas, posso solo dire che si tratta di una Ong registrata a Malta. Ci tengo a precisare che, anche se opera da Malta, la sua nave non risulta registrata nel nostro Paese (batte bandiera del Belize, ndr)». 
Prima di essere nominato ministro degli Esteri, lei ha guidato gli Interni. Ma l’immigrazione è davvero solo una questione di sicurezza nazionale o non sarebbe meglio gestirla come un tema di politica internazionale e cooperazione? 
«Il fenomeno ha chiaramente una sua dimensione esterna e una interna. A Malta anche gli aspetti operativi ricadono nel campo della sicurezza nazionale: non avendo una guardia costiera, per i pattugliamenti vengono impiegate navi militari. Abbiamo sempre sostenuto la causa di un approccio onnicomprensivo, direi olistico, al fenomeno. Crediamo che l’immigrazione irregolare verso l’Europa debba essere controllata maggiormente e trattata secondo una linea comune a tutta la Ue, in partnership con Paesi terzi».

giovedì 10 agosto 2017

Ignoranza criminale

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In pienissimo centro a Firenze, in via de' Ginori, c'è questo bel negozio che vende prodotti, perlopiù calabresi, da terre confiscate alle mafie. Lo scrivono anche fuori, in inglese. Ma sotto, ed è questo che mi ha lasciato interdetto, hanno dovuto aggiungere "non è uno scherzo!".
Perché?, ho chiesto ai proprietari. La gente non ci crede? Peggio: hanno dovuto (appunto, dovuto) aggiungere quella frase per i turisti. "Scoppiavano a ridere", mi ha detto desolata una signora reggina gentilissima. Per loro, soprattutto per gli americani, notoriamente poco avvezzi a preoccuparsi di capire come giri realmente il mondo oltre il loro grande Paese, la mafia è quella del Padrino. "Uno scempio", ha aggiunto la signora.
È un problema di ignoranza che però siamo noi stessi italiani (e siciliani e calabresi e campani eccetera) ad alimentare spesso vendendoci macchiettisticamente ai turisti stranieri. Le cartoline con i motti mafiosi, le statuine con la lupara, la coppola, la musica del Padrino suonata da ogni fisarmonica all'uscita dei ristoranti a menù fisso, più italoamericano che italiano. E così la mafia non è per loro il mostro che soffoca la nostra economia e la società, non il nemico dei giovani coraggiosi del Sud, non la ragnatela criminale del caporalato e dello sfruttamento. No, per loro è tutto un immaginario di boss eleganti, sfarzo stile John Gotti, al massimo epopea/mitologia da gangster.
Per loro la mafia è uno scherzo.
Continuate a mangiare cibo spazzatura, va'.

mercoledì 19 luglio 2017

Si fa presto a dire extracomunitari

Il 15 agosto 1474, nella mia Modica, ancora prima che gli Ebrei venissero ufficialmente cacciati dall'Europa cristiana, si verificò uno dei più gravi eccidi di ebrei della storia. Aizzati da un predicatore cattolico piuttosto invasato, i modicani di allora si mostrarono ferocemente antisemiti, massacrando almeno 360 ebrei. "Almeno": dunque verosimilmente furono molti di più... Poi arrivò appunto il 1492 e per gli ebrei non ci fu più spazio comunque.
La Menorah disegnata sul torrione di Castello Ursino, a Catania
In Sicilia non esiste più in pratica una comunità ebraica da allora, anche senza tragedie come quella di Modica. Sono passati oltre 500 anni (mezzo millennio suona anche meglio...) e nell'Isola alcuni gruppi ebraici hanno ottenuto dalle autorità cattoliche di poter convertire vecchie chiese in sinagoghe (a Palermo, per esempio). Ma la notizia è che adesso a Catania starebbe rinascendo una comunità ebraica, la prima nell'Italia meridionale dai tempi del bando di re Ferdinando e regina Isabella. "Starebbe", attenzione. Dietro l'operazione, pubblicizzata da comunicati stampa entusiastici, sembra esserci un gruppo di conservatori americani; a guidare l'aspirante comunità un avvocato catanese convertito, Baruch Triolo, che ha ottenuto dal Comune la concessione di un piano dell'International Institute for Jewish Culture. Solo che un rabbino ancora non c'è... E, soprattutto, l'operazione che tanto piace ad ambienti neo-con americani e ha trovato prevedibilmente spazio sulla stampa siciliana, al contrario è stata subito stoppata nientemeno che dalla Ucei, l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. La presidente Noemi Di Segni ha chiarito che non ci si può unilateralmente proclamare "comunità ebraica": questa può costituirsi solo sulla base dell'intesa firmata trent'anni fa dall'Ucei e dallo Stato italiano. Un soggetto privato, anche se è un'associazione che si interessa di ebraismo, non può ottenere concessioni di beni pubblici presentandosi come "comunità" senza aver interpellato i referenti istituzionali, l'Ucei e la Comunità ebraica di Napoli.
Tanti giornali hanno amplificato la notizia della costituenda comunità  ("annunci irresponsabilmente diffusi", attacca l'Ucei), mentre la dura presa di posizione di Noemi Di Segni è stata ignorata. Ricordo che nel 2010 Stefano Di Mauro, alias Isaac Ben Avraham, siculo-americano convertito ortodosso a Miami (anche Triolo è diventato ebreo lì), fece la stessa cosa a Siracusa. Ricreata una "comunità" ebraica dopo i famosi 500 anni. Ma il tutto extra-Ucei, nel novero di una non ufficiale Federazione degli ebrei del Mediterraneo. Sul sito di quest'associazione ci sono Siracusa, Taormina e, casualmente, Catania. La pagina sul capoluogo etneo risulta "in costruzione".

lunedì 10 luglio 2017

Il ponte sul Detroit

Il Movimento 5 Stelle ha scelto il suo candidato alle Regionali di novembre in Sicilia. Ovviamente è Giancarlo Cancelleri, deputato regionale uscente e già candidato nel 2012, molto vicino ai vertici nazionali. Ovviamente, perché lo sapevano tutti che sarebbe stato lui. E il voto online di qualche migliaio di iscritti M5S non poteva smentirlo. Tra l'altro, assomiglia molto a certe primarie di centrosinistra che i grillini considerano fasulle perché servono solo a certificare un'investitura decisa dall'alto... Il solito show di Beppe Grillo ha fatto solo da contorno.
Su QN ho intervistato Pietrangelo Buttafuoco, acutissimo osservatore delle cose siciliane (da noi sono talmente complesse che forse è meglio usare un termine generico...). E il quadro è, prevedibilmente, impietoso. Tra un M5S quasi certo della vittoria ma costretto a un bagno di realismo, una sinistra assente e da operetta, una destra che si è messa all'angolo. Con un elettorato che spesso pensa solo a se stesso.

La Sicilia come Detroit. «Io a Cancelleri (il neo designato candidato presidente grillino in Sicilia, ndr) l’ho detto: quando il Movimento 5 Stelle vincerà le regionali in Sicilia, dovrà copiare la procedura fatta per Detroit. Dichiarare il default». Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore catanese, non ha dubbi che i grillini vinceranno a novembre. Né sul fatto che la Sicilia «non si può salvare».
Allora c’è poco da fare... La Sicilia è condannata?
«Il M5S è favorito, rappresenta il cambiamento. Ma come tutti i favoriti ha una responsabilità: conoscere la realtà delle cose. E chiunque arriverà dopo Rosario Crocetta farà di peggio. Non ce la farebbe neanche Mandrake! Resta solo dichiarare il default».
Peggio? E perché?
«La Sicilia non si può salvare finché c’è questo statuto speciale che accelera solo le condizioni di corruzione e degrado. Il ricatto del consenso, le clientele: è come una cisti, una metastasi».
Tutta colpa dell’autonomia?
«L’autonomia sarebbe bellissima. Di mio, io sarei indipendentista... Ma non con questa degenerazione e con un ceto politico così inadeguato».
Ecco, i politici. I grillini vinceranno anche perché gli altri...
«I vertici istituzionali nazionali sono siciliani: Mattarella al Quirinale, Grasso al Senato, Angelino Alfano alla Farnesina. E tutti sono partecipi della sofferenza politica della sinistra siciliana. Crocetta è il presidente con il buco (di bilancio) intorno... Resta la solita retorica della sinistra che non risolve i problemi ma li criminalizza».
Sta parlando di mafia?
«Non so se dire ‘per fortuna’ o ‘purtroppo’... ma la mafia è ormai l’ultimo dei problemi. C’è invece questa antimafia da operetta, retorica. Un’antimafia dalla quale, ad esempio, è sempre rimasto fuori Pietro Grasso. Che infatti ha detto di no alla proposta di candidarsi per il centrosinistra».
A sinistra cercano ancora il papa straniero.
«O è il papa straniero o alla fine ricandidano Crocetta, l’uomo dell’asse antimafia-Confindustria, quello che cambia continuamente assessori. La verità è che Renzi non ha mai considerato la Sicilia. E se vedi i renziani siciliani ti scanti (ti spaventi, ndr), ci vuole l’antitetanica! Si è creata una maionese impazzita con il renzismo. Esilarante quando hanno sondato pure Gaetano Miccichè, il banchiere, fratello di Gianfranco, quello di Forza Italia...».
E i vecchi della politica siciliana, l’usato garantito tipo Leoluca Orlando o Enzo Bianco?
«L’unico poteva essere Leoluca, un demiurgo che però ha deciso di godersi il suo lavoro a Palermo, l’ultima vera perla rimasta».
Diceva di Miccichè. La destra come sta invece? Candiderà Nello Musumeci?
«Probabile. Se Silvio Berlusconi ha rimesso tutto in mano a Miccichè vuol dire che non gli interessa più la Sicilia, quella del fu 61-0. Il fatto è che la Sicilia preoccupa molto i leader nazionali».
Perché?
«Qui le campagne elettorali sono come i concorsi pubblici: ognuno cerca la propria collocazione. Questo una volta era il granaio di Roma, ora è solo un granaio elettorale. E in tema di eccentricità non ci batte nessuno: il 61-0, Beppe Grillo che arriva a nuoto, siamo una terra particolare. Tutti i fenomeni del pittoresco si danno appuntamento qui...».
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sabato 17 giugno 2017

Watersgate


«Ti raccomando i miei libretti, Quinziano, se tuttavia posso chiamarli miei, dato che li recita uno dei tuoi amici...». È il primo secolo dopo Cristo e per la prima volta nella storia viene documentato l'uso del termine "plagio" nel senso di violazione del diritto d'autore. Letteralmente, il termine latino "plagium" indicava la riduzione di un uomo libero in stato di schiavitù, o anche il furto di uno schiavo. Quei versi erano di Marziale, epigramma 52 (libro I). Si lamentava con l'amico perché qualcun altro si era appropriato dei suoi versi e li spacciava per propri.
Quindi il plagio del diritto d'autore è questo, anche quasi duemila anni dopo. Cito da una storica sentenza della Corte Costituzionale: «l'azione di farsi credere autore di prodotti dell'ingegno altrui e quella di riprodurli fraudolentemente».
Ecco, tecnicamente, secondo il tribunale di Milano, la copertina dell'ultimo disco di Roger Waters, l'ex leader dei Pink Floyd, è un plagio. La copertina, non la musica, attenzione. Non è come Michael Jackson che scopiazza Al Bano... Il disco, is this the life we really want?, è uscito il 2 giugno e segna il ritorno da solista in studio di Waters dopo 25 anni. Di tempo per riflettere sulla copertina ne ha avuto tanto, ma non è bastato. E infatti è incappato in un grosso scivolone.
La cover, l'involucro, il libretto illustrativo, le etichette, il merchandising: tutto più o meno copiato, dicono i giudici milanesi, dalle opere di Emilio Isgrò, uno dei più grandi artisti contemporanei viventi, pittore e scrittore, siciliano di Barcellona Pozzo di Gotto, esposto nei musei più prestigiosi del mondo. Isgrò è celebre per le cancellature, sua cifra stilistica fin dagli anni Sessanta (anche se la tecnica del caviardage è precedente). E sul disco di Waters le cancellature sono ovunque, appunto, davvero molto simili a quelle dell'artista concettuale siciliano. Come se avesse riprodotto i tagli di Lucio Fontana o i quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto. Quelle cancellature, secondo la critica e in parte per il diritto d'autore, "appartengono" a Isgrò. «Ammiro Waters, ma questo è un plagio palese», commenta laconico l'artista siciliano.
Il caso è senza precedenti. Il tribunale, accogliendo il ricorso dei legali di Isgrò, ha ravvisato in via cautelare gli estremi del plagio – che peraltro anche molte recensioni avevano notato... – e dunque ordinato a Sony Italia (che distribuisce il disco prodotto da Columbia Records) di bloccare la vendita dell'album di Waters. Il 27 giugno la prossima udienza nella quale Sony potrà opporsi al provvedimento. Stando alla Convenzione di Basilea sul diritto d'autore, se i giudici dovessero decidere nel merito a favore di Isgrò, cause del genere potrebbero replicarsi all'estero. Il decreto della giudice Silvia Giani apre però alla possibilità di una «composizione bonaria», anzi sembra proprio auspicarla. Sarebbe un peccato se l'ultima cancellatura di Emilio Isgrò fosse Roger Waters...
È davvero questa la vita che vogliamo? (cit.)

martedì 13 giugno 2017

Hey Giusi

Di Giusi Nicolini ho sempre avuto una buona opinione. Per questo sono rimasto colpito dalla sua netta sconfitta alle elezioni comunali (solo terza a Lampedusa, da sindaco uscente). Una sconfitta per la quale molti hanno tifato, perché non è sembrato vero poter dire che la gente, quella che vota (peraltro con affluenza molto alta), boccia l'accoglienza dei migranti, che un sindaco dovrebbe preoccuparsi più dei bisogni dei suoi concittadini e così via. Proprio perché sono sorpreso, però, vorrei provare a capire, o solo constatare, i motivi di questo flop. La Nicolini è entrata da poco nella segreteria nazionale del Pd, Matteo Renzi ne ha fatto una facile e comoda bandiera. E forse questo non deve aver convinto troppo proprio chi da un sindaco pretende risposte ai bisogni concreti e quotidiani (l'acqua, la benzina troppo cara, l'elettricità – c'è stato un blackout anche durante lo spoglio delle schede). Strumentalizzazione? Forse sì, forse no. Fatto sta che in campagna elettorale si è parlato praticamente solo dei premi e riconoscimenti internazionali per Giusi Nicolini (ultimo quello dell'Unesco). L'accusa degli oppositori è che lei abbia pensato principalmente alla sua immagine. Lei, che comunque c'ha sempre messo la faccia come nessun altro, replica di aver "portato il nome di Lampedusa nel mondo". Il buon nome, aggiungo io.
Ma chi sono davvero i suoi avversari? La questione non è solo politica né solo legata al tema immigrazione. Passi per la solita ex senatrice leghista Angela Maraventano, fan della "zona franca" per Lampedusa (ha preso solo il 6%), e passi anche per il grillino – ma candidato con lista civica – Filippo Mannino che l'ha pure superata (lui oltre il 28, lei al 24%). Il punto è che ha vinto Salvatore "Totò" Martello, che torna sindaco più di 15 anni dopo l'ultima volta (ha superato il 40% con la sua lista Susemuni, cioè "alziamoci"): volto storico della sinistra a Lampedusa e Linosa, anti renziano, artefice del trionfo di Gianni Cuperlo sull'arcipelago alle primarie del 2013, albergatore e leader dei pescatori, legato all'assessore regionale all'Agricoltura e pesca, Antonello Cracolici (Pd). Insomma, Giusi Nicolini ha perso contro il fuoco amico di una parte del Pd... Forse l'endorsement renziano, platealmente rappresentato dal ministro Luca Lotti in trasferta a Lampedusa con la scusa di inaugurare il nuovo campo da calcio, non è stato una mossa azzeccata. Certo, la Nicolini rivendica di non aver mai pensato solo a se stessa, altrimenti avrebbe accettato ben altre proposte politiche, come la candidatura alle Europee 2014, da lei onorevolmente respinta al mittente. Lo stesso mittente che però mi aspetto possa presentarle altre offerte, chissà...
L'immigrazione, si diceva. Quasi tutti hanno interpretato la sconfitta di Giusi Nicolini come la sconfessione della sua linea morbida. Ma è davvero così? Il neo eletto Martello ha messo subito le mani avanti: «Le nostre braccia restano aperte, ma vogliamo prima sapere quali sono le regole date». Parole più o meno di circostanza. Epperò con lui è schierato anche Pietro Bartolo, il medico-eroe del Fuocoammare di Gianfranco Rosi. Anche Bartolo è un critico della Nicolini, e non si può certo dire che sul tema immigrazione sia insensibile e cinico... D'altra parte, l'ormai ex sindaca ribatte che il dottor Bartolo è stato assessore di Martello e persino di quel Bernardino De Rubeis, primo cittadino dal 2007 al 2012 per il centrodestra, che aveva la Maraventano come vice e che il tribunale di Agrigento ha condannato a sette anni per una storia di tangenti.
Insomma, in fondo tutto sembra risolversi in uno scontro personale e/o politico che poco ha a che vedere con il tema caldo che a destra viene identificato come l'unica ragione della sconfitta di Giusi Nicolini. Ciò a cui nessuno ha pensato, in pratica, è che anche in una bella storia come quella del sindaco ambientalista, antimafia e pro accoglienza ci possa essere un triste epilogo fatto di veleni, accuse incrociate, sospetti e antipatie, presunti "poteri forti" (spettro agitato da alcuni sostenitori della Nicolini). Quello che però mi ha colpito più di ogni cosa è la frase con cui la sindaca uscente ha liquidato le critiche di Totò Martello. Rifiutandosi di replicargli direttamente, ma sottolineando che la sua priorità era ormai solo svuotare la stanza del sindaco e «fotocopiare carte a mia tutela». Frase sibillina ma non troppo...

giovedì 8 giugno 2017

Il papello clinico

A Totò Riina, 86 anni, forse non resterebbe troppo da vivere neanche se fosse sano. E invece ha pure due tumori. Così, come già avvenuto a suo tempo con Bernardo Provenzano, i suoi legali chiedono gli arresti domiciliari per ragioni di salute. La richiesta di zu' Binnu venne rigettata, idem è successo con il capo dei capi. Epperò l'ineffabile Corte di Cassazione ha annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna che aveva rifiutato il trasferimento di Totò u curtu a casa a Corleone per finire là i suoi giorni. Insomma, la Suprema Corte ha detto che anche il peggiore criminale italiano (centinaia di omicidi e cinque stragi nel curriculum) "merita una morte dignitosa". I giudici bolognesi dovranno dunque motivare meglio il loro rifiuto, e magari stavolta la Cassazione non avrà nulla da ridire. Ma la questione resta.
Che diritto ha Totò Riina di morire dignitosamente nel suo letto? E alle sue vittime morte tra violenza e dolore non ci pensa nessuno? Domande tutte giuste, con risposte fin troppo ovvie. I commenti di questi giorni si sono destreggiati tra un garantismo di maniera ("dire no ai domiciliari è come tifare per la pena di morte") e una indignazione non sempre sincera. Io, per quel pochissimo che vale, riassumo la mia: Totò Riina deve restare in carcere. Ah, peraltro è già fuori dalla sua cella: infatti si trova in ospedale a Parma (l'ex compare Provenzano morì in un letto del San Paolo di Milano), naturalmente detenuto.
Ecco, ho lavorato in una piccola casa circondariale siciliana e visitato due volte il carcere-modello di Bollate, forse non sono obiettivo o imparziale, ma la Costituzione e le leggi sull'ordinamento penitenziario le conosco: le pene non devono essere degradanti, l'obiettivo finale è la rieducazione, devono essere garantiti i diritti del detenuto, eccetera. Le carceri italiane sono invece sovraffollate, non tutte possono vantare organizzazione e servizi e attività come Bollate, le istituzioni europee ci bacchettano costantemente per le gravi lacune del nostro sistema carcerario. Secondo il dossier di Ristretti Orizzonti, nel 2016 sono stati 115 i "morti di carcere" (per "suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose").
Le cure dignitose dovrebbero spettare a tutti i detenuti, non solo al gotha del crimine... E a Totò Riina – non può dubitarne nessuno, neanche il garantista più incallito – viene assicurato un trattamento sanitario in piena regola, direi "dignitoso". Riina è un pluri ergastolano, condannato al 41 bis. Mandarlo a casa, come hanno notato anche autorevoli osservatori (per nulla giustizialisti), equivarrebbe proprio a sconfessare il regime del carcere duro per i mafiosi. Non c'è dubbio che l'obiettivo è quello, far saltare il 41 bis. Senza stragi, stavolta. La cartella clinica come il nuovo papello... Sarebbe una vittoria per Riina e per i mafiosi. Della serie: "anche da moribondo esercito il mio potere e la mia libertà". Libertà è una parola grossa che uso volutamente con intento provocatorio. Quest'uomo, "la belva", la libertà l'ha già sperimentata nei suoi 24 anni di latitanza. Il suo potere lo conosciamo fin troppo bene. Non diamogliene altro.

mercoledì 12 aprile 2017

I G7 nani


Lui: faccia furba, coppola post-mafiosa in testa, bretella colorata e sigaretta malandrina in bocca, masculo. Lei: abito rosso, capello al vento, sensualmente truccata, ombrellino, fìmmina.
Non è una pubblicità di Dolce & Gabbana, una di quelle campagne su una Sicilia da cartolina che non esiste neanche in cartolina. Invece è una immagine allegata alla app che il governo italiano ha distribuito alle migliaia di giornalisti stranieri che arriveranno a fine maggio a Taormina per il G7. Esatto: il G7, quel vertice internazionale che in realtà non ha alcun valore istituzionale ma che viene venduto come uno degli eventi più importanti a livello planetario. E così, chi si accrediterà per il summit di Taormina ha trovato nella sua cartella stampa questa significativa raffigurazione della Sicilia.
Ricordiamo che questo G7 è stato fissato a Taormina dall'ex presidente del Consiglio Matteo Renzi (che prima era orientato verso un qualche paese fiorentino), giustificando la scelta proprio come risposta ai pregiudizi sulla Sicilia mafiosa e l'Italia dai mille difetti. Una risposta riassunta in un logo sciatto da tribuna politica anni Sessanta, peraltro.
Il presidente dell'Ars Giovanni Ardizzone si è indignato, i social commentatori idem. Infine il governo ha ritirato quell'immagine, ma il danno e la beffa sono già fatti. La sciatteria comunicativa ha fatto sì che almeno per un po' si è deciso che a rappresentare una delle località più belle della Sicilia, eterna candidata al Patrimonio dell'Umanità dell'Unesco, capitale turistica dell'Isola, dovesse essere la solita cartolina pastellata del Sud languido e godereccio. Probabilmente avrà apprezzato il presidente dell'Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, convinto che nel Sud Europa sperperiamo i sacri soldi del giudizioso nord in donne e alcol.
Il G7 avrebbe dovuto, nelle intenzioni di Renzi, garantire "grande ritorno mediatico" a Taormina. Così sarà, certo. Ma non basta l'infelice campagna sessista e stereotipata: perché nel frattempo, nel mondo reale, Taormina rischia seriamente di dover rinunciare al suo celebre Film Festival, per una sentenza del Tar di Catania che ha escluso due società, la vincitrice della gara e la ricorrente, dall'aggiudicazione dell'organizzazione dell'evento. Mentre si vantano dunque urbi et orbi la bellezza e la cultura, anche in modi discutibilissimi, Taormina potrebbe vedersi privata della sua vera ricchezza. Che non sono picciotti smorfiosi né fanciulle maliziose.

martedì 11 aprile 2017

Aiuto! regista


Gli assenti hanno sempre torto, gli assenteisti quasi sempre.
Quasi: perché, al netto della giusta indignazione popolare sui "furbetti del cartellino" e affini, quando le cose finiscono in tribunale possono pure andare in maniera diversa. Lasciamo perdere le solite considerazioni politiche sulle varie riforme della pubblica amministrazione, atteniamoci al punto e ai fatti: 77 dipendenti del Comune di Modica, accusati di assenteismo nel 2012, sono stati assolti in primo grado dal tribunale di Ragusa. E su questo, domenica scorsa, Massimo Giletti c'ha imbastito la solita puntata indignata della sua Arena su Rai 1, fondata ancora una volta sul facile bersaglio della Sicilia irredimibile, l'Isola dei privilegi, la terra degli scandali quotidiani.
Al di là della sensazione sgradevole e stucchevole dello "sparare sulla Croce Rossa", la vicenda ha avuto una coda interessante proprio a Modica. Sono intervenuti a distanza di un giorno un ex sindaco, Piero Torchi (fu Udc), e l'attuale primo cittadino Ignazio Abbate (ex Ds, mai entrato nel Pd, poi folgorato sulla via di un civismo autonomo e di centro). Entrambi se la sono presi per «l'immagine falsa» della città, il «fango», la «caccia alle streghe», una città bella e gloriosa trattata come «zimbello». E così via, com'è naturale che sia, fino a «quell'orgia mediatica anti siciliana che ormai ‘alberga’ nell'animo del signor Giletti» (Ignazio dixit). Però è la riflessione successiva a lasciarmi molto perplesso, anzi "basito", per utilizzare lo stesso termine usato dal sindaco. Cito ancora testualmente le sue parole, con tanto di perentorie maiuscole, e mi spiego, partendo dal suo "dispiacere":
Abbate con un habitué delle "crociate" di Giletti,
il presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta

Un dispiacere che è ancora più forte se si pensa che il regista di quella trasmissione è un MODICANO, il signor Giovanni Caccamo, ‘figlio’ di questa Città, che in questa Città è cresciuto e che da questa Città ha cominciato il suo cammino verso quelle vette professionali che ha raggiunto… Dimentico anche lui di questo, ha dato ‘una mano’ a dipingere ciò che Modica non è [...]. Avere il regista modicano, poteva far ‘scontornare’ meglio i confini dell’accusa contro Modica [...] Capisco che ‘nemo propheta in patria’, ma, da un Modicano come il regista di quella trasmissione, mi sarei aspettato un po' più di VERITÀ su Modica e non questo ‘massacro’ mediatico che mi lascia basito, che mortifica la realtà e che ha anche la firma in calce di un Modicano, evidentemente un po' troppo ‘romanizzato’ per capire che le cose, nella mia e nella NOSTRA CITTÀ non stanno come le ha dipinte la sua trasmissione…
Giletti ha evidentemente trovato la sua gallina dalle uova d'oro, in termini di audience domenicale, nelle magagne della Trinacria. Ma mi fa specie che il sindaco, anziché inchiodare Giletti sul fatto che ha costruito la puntata sulle carte dell'accusa e non sulla sentenza di assoluzione, abbia reagito punto nell'orgoglio di un miope campanilismo, di un abbozzato revanscismo meridionalista. Prendendosela con il regista della trasmissione di Giletti, un modicano che di nome fa Giovanni Caccamo (non siamo parenti e non so minimamente chi sia). Perché se uno è modicano e lavora alla Rai ed è un professionista, dunque avrebbe dovuto astenersi dal "mettere la firma" sul programma. Programma che va criticato semmai per i mille difetti professionali e di contenuto: Giletti è lo stesso che, più di un anno fa, disse che Pirandello e Quasimodo erano nati nello stesso paesino (emblema di altri mali siculi, ça va sans dire) in provincia di Agrigento...
Sindaco Abbate, se la prenda piuttosto con la sciatteria, magari sì anche con questa specie di accanimento scientifico e interessato contro la Sicilia, con la non correttezza professionale, ma combattere lo stereotipo con un contrattacco così bislacco è insensato. Soprattutto perché mette in discussione un principio sacrosanto di qualsiasi professione: la professionalità.
Dunque io, che sono modicano e da tempo lavoro al di là della "linea gotica", dovrei evitare di criticare, se è il caso, ciò che non va nella mia bellissima città e nella meravigliosa terra di Sicilia? Aver vissuto a Bologna, Ravenna, Milano, insomma, potrebbe aver offuscato la mia obiettività... La censura fa schifo; l'autocensura provincialotta anche di più.