Ecco il mio ritratto del capo dello Stato, pubblicato sul Quotidiano Nazionale]
«In confronto a Sergio Mattarella, Arnaldo Forlani era un movimentista». E se a dirlo è Ciriaco De Mita, che di Mattarella è stato lo sponsor politico in quel groviglio di correnti che era la Dc degli anni Ottanta, allora c’è da credergli. Mattarella è schivo, sobrio, forse persino gelido: «Mostrate allegria!», scherzava qualche tempo fa l’enigmista Stefano Bartezzaghi anagrammando il suo nome. Insomma, Sergio Mattarella da Palermo, classe 1941 fu Bernardo, è così. Calmo, pacato e rigoroso (o rigido?). A tal punto che il suo grido di battaglia nella campagna elettorale per le turbolente elezioni del 2001, quelle del trionfo berlusconiano, era «molto è stato fatto, ma molto resta da fare». Lui comunque fu eletto. In un collegio ‘straniero’, in Trentino. «Non possiamo venire a sapere dal Giornale di Sicilia che uno si candida qui», insorsero a Trento.
«La mia azione politica è sempre e comunque provvisoria», diceva l’uomo che ha dato, suo malgrado, il nome a una legge elettorale, il Mattarellum. Il politologo Sartori voleva essere ironico con quel latino. Ma alla politica, a un certo punto, Sergio ha dovuto dedicare la sua vita. Il 6 gennaio 1980 gli muore tra le braccia il fratello Piersanti, presidente della Regione Sicilia. Ucciso dalla mafia. È un legame forte, quello di ‘Sergiuzzu’ e Piersanti: «Ci confidavamo su tutto». Dopo la strage di via Libertà, De Mita lo manda a Palermo a rinnovare quella Dc siciliana che con la mafia aveva convissuto per lungo tempo. Persino papà Bernardo, dominus della politica isolana, dieci volte ministro, era stato molto chiacchierato: sempre assolto da ogni accusa, comunque (avvocato era l’onorevole Giovanni Leone, futuro capo dello Stato, per la cronaca). Piersanti era morto perché voleva rompere quei legami. Anche se fu lui l’artefice della prima elezione di don Vito Ciancimino a sindaco di Palermo, nel 1970. E l’opera di rinnovamento di Sergio parte proprio dal Comune: Leoluca Orlando, l’uomo della ‘primavera palermitana’, è una sua creatura.
Poi il salto romano: in Parlamento dal 1983 al 2008, sette legislature ininterrotte. Supera indenne anche la tempesta di Tangentopoli, trasformando la Dc nel Partito popolare. E sarà ancora lui a battezzare la nascente Margherita e a firmare il manifesto che dà vita al Pd. Venticinque anni di Parlamento, ministro in governi diversissimi, da Andreotti a D’Alema. Con il Divo Giulio si occupa di istruzione, almeno fino al 1990, quando – ed è questo il primo vero sussulto, a quasi 50 anni – si dimette per protesta contro la fiducia sulla legge Mammì che avrebbe sanato la situazione di illegalità delle tv di Berlusconi.
Prima di dimettersi aveva avuto il tempo di appoggiare, da buon cattolico, la battaglia del Vaticano contro il tour di Madonna: «Un’offesa al buongusto». Ma il conto aperto ce l’ha proprio con il Cavaliere e il centrodestra. Quando Buttiglione critica pesantemente gli ex democristiani che vanno a sinistra, lui risponde con inedita ironia: «El general golpista Roquito Butillone...». E fu «un incubo irrazionale» vedere Forza Italia nel Ppe insieme a lui.
Con il líder máximo D’Alema (di cui è stato anche vicepremier) andrà invece alla Difesa. Abolisce la leva obbligatoria e nel 1999 aderisce convintamente alla guerra in Kosovo. Si guadagna la stima degli americani. Ma il suo biglietto da visita internazionale si ferma qui. Il curriculum nazionale invece è ricco: «la poltrona più bella è quella della Corte costituzionale», diceva poco tempo fa. Per arrivare nel 2011 alla Consulta fu decisivo il voto di una giovane neo mamma, Marianna Madia. Bernardo Giorgio, figlio di Sergio e allievo dell’altro ‘quirinabile’ Sabino Cassese, oggi è uomo di punta dello staff del ministro Madia.
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