Le parole sono importanti. Ed è altrettanto importante la lingua in cui vengono espresse. In questi giorni ha tenuto banco la sacrosanta campagna #dilloinitaliano, lanciata dalla pubblicitaria Annamaria Testa e raccolta dall'Accademia della Crusca, contro gli anglicismi inutili nella lingua italiana. Tutto giusto e condivisibile. Poi, però, mi è tornato sott'occhio un libro che comprai tempo fa, Dizionario mafioso-italiano italiano-mafioso di Vincenzo Ceruso (2010). Esercizio interessante, quello di stilare un vocabolario mafioso. Utile.
E allora notavo che alcune delle parole più importanti della grammatica mafiosa sono in inglese! La stessa definizione di "Cosa Nostra" è nata tecnicamente negli Stati Uniti. Era il 1963 quando il mafioso italo-americano Joseph Valachi, in deposizione al Senato di Washington, spiegò che tra di loro gli uomini d'onore chiamavano "Cosa Nostra" (in inglese, appunto, Our Thing) l'organizzazione cui erano affiliati. Fu addirittura l'Fbi a interpretare "Our Thing-Cosa Nostra" come il nome ufficiale della mafia siciliana. La stessa mafia divisa in clan, cioè famiglie. Quello di famiglia, si sa, è un concetto piuttosto scivoloso nelle regioni del Sud Italia, quando appunto si intreccia con la geografia criminale. Comunque la parola in questione, "clan", è un prestito dal gaelico-scozzese (non proprio inglese, dunque), e piace molto a noi giornalisti. Così come, evidentemente, siamo affascinati dai "boss". Che in un contesto anglofono sarebbero semplicemente dei capi, anche capiufficio e datori di lavoro. Mi viene in mente il finale di Wont't Get Fooled Again dei The Who: «Meet the new boss. Same as the old boss». Tra il vecchio e il nuovo boss non c'è differenza...
Insomma, paradossalmente, la lingua della mafia per eccellenza è l'inglese.
Dal libro di Ceruso ho scoperto però un termine che ignoravo: zip. Termine nato in ambito americano, indica un mafioso siciliano che viene inviato negli Usa o viceversa (ma anche da altri Paesi: i killer del giudice Livatino arrivarono dalla Germania) per compiere il proprio lavoro da sicario. Zip perché emettevano suoni veloci e indistinti in una lingua, l'inglese, che non parlavano affatto. O perché erano rapidissimi i loro spostamenti. Quindi parliamo della manovalanza, dei picciotti. Eppure, perché la mafia cambia proprio come le lingue si aggiornano al passo coi tempi, l'insieme degli zip era finito per creare una "terza mafia", parallela a quella siciliana e a quella americana, un limbo del crimine siculo-americano a far da ponte nel traffico globale di droga.
Come conclude Ceruso, «in un'epoca di equilibri che mutano dentro Cosa Nostra, parole che sembrano appartenere a un altro tempo aiutano a comprendere una mafia nuova. Nuovissima. La mafia di sempre». In inglese, italiano, siciliano.
mercoledì 25 febbraio 2015
sabato 14 febbraio 2015
Morsi e rimorsi storici
Come la buvette e i divanetti in Transatlantico. Che Parlamento sarebbe senza risse? Pugni, scazzottate e insulti fanno ormai parte dell'arredamento di Camera e Senato (statisticamente sono più irrequieti i deputati: sarà la gioventù). E non solo perché sia peggiorata la classe dirigente e politica. Le risse andavano in scena già prima della Repubblica e neppure i padri costituenti disdegnavano il confronto fisico. Ai nostri tempi, certo, la situazione è degenerata.
Ieri ho scritto sul Quotidiano Nazionale un articolo che prova a ripercorrere alcune delle più curiose e interessanti pagine di risse nel "saloon Montecitorio". Uno degli episodi più particolari, che non conoscevo e ho scoperto dagli archivi (analogici...), riguarda un deputato comunista, alla Camera dalla prima alla quarta legislatura. Si chiamava Luigi Di Mauro, sindacalista Cgil, classe 1920 (morto nel 2011), da Caltanissetta. Nel dicembre 1951 si conquistò sul campo, e con larghissimo e incontrastato merito, il titolo di «gran morsicatore». In una sola seduta fece assaggiare i suoi denti a tre democristiani: Achille Marazza, Mariano Pintus e nientemeno che Alcide ("Aspide", per i detrattori...) De Gasperi. Lo storico leader Dc fu morso a un dito. Quella performance a Montecitorio per fortuna non ha offuscato i meriti del Di Mauro sindacalista, quello che si era battuto per l'emancipazione dei minatori nel Nisseno. Quando morì, fu ricordata soprattutto la sua vita di lotta per i lavoratori sfruttati. C'era anche una commossa Anna Finocchiaro, nel 2011 a Catania, a commemorarlo. Si era iscritta al Pci nella stessa sezione del «gran morsicatore».
(Invece il catanese Nino Strano addentava mortadella per festeggiare la caduta di Prodi)
Ieri ho scritto sul Quotidiano Nazionale un articolo che prova a ripercorrere alcune delle più curiose e interessanti pagine di risse nel "saloon Montecitorio". Uno degli episodi più particolari, che non conoscevo e ho scoperto dagli archivi (analogici...), riguarda un deputato comunista, alla Camera dalla prima alla quarta legislatura. Si chiamava Luigi Di Mauro, sindacalista Cgil, classe 1920 (morto nel 2011), da Caltanissetta. Nel dicembre 1951 si conquistò sul campo, e con larghissimo e incontrastato merito, il titolo di «gran morsicatore». In una sola seduta fece assaggiare i suoi denti a tre democristiani: Achille Marazza, Mariano Pintus e nientemeno che Alcide ("Aspide", per i detrattori...) De Gasperi. Lo storico leader Dc fu morso a un dito. Quella performance a Montecitorio per fortuna non ha offuscato i meriti del Di Mauro sindacalista, quello che si era battuto per l'emancipazione dei minatori nel Nisseno. Quando morì, fu ricordata soprattutto la sua vita di lotta per i lavoratori sfruttati. C'era anche una commossa Anna Finocchiaro, nel 2011 a Catania, a commemorarlo. Si era iscritta al Pci nella stessa sezione del «gran morsicatore».
(Invece il catanese Nino Strano addentava mortadella per festeggiare la caduta di Prodi)
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martedì 10 febbraio 2015
Ha voluto la bicicletta...
Ecco, ho ri-scoperto il nome Montante solo qualche anno fa, per la bici esposta a Fontanarossa e perché il cavaliere Antonello è il presidente di Confindustria Sicilia, tra i principali sostenitori di quella "svolta antimafia" degli industriali dell'Isola lanciata dal suo predecessore Ivan (all'anagrafe Ivanhoe) Lo Bello. Un simbolo della nuova antimafia siciliana, protagonista di una stagione diversa e a suo modo rivoluzionaria. Camilleri parla infatti di "bici della Legalità".
La Sicilia, però, è una terra strana. La svolta di Confindustria fa e deve fare notizia perché fino a non troppi anni fa le contiguità tra criminalità e associazioni di categoria erano all'ordine del giorno (e spesso gli imprenditori onesti erano lasciati soli nelle loro battaglie). Non dette, ovviamente. Perciò appare un paradosso tipicamente siciliano che ora due presunti pentiti accusino di mafia Antonello Montante. L'obbligatorietà dell'azione penale fa sì che sia iscritto nel registro degli indagati presso non una, ma ben due procure antimafia, Catania e Caltanissetta. Dell'indagine si sa pochissimo o nulla, le bocche tacciono, i sussurri no. Torna alla ribalta per esempio il fatto che testimoni di nozze di Montante, nel lontano 1992, furono due mafiosi di Serradifalco. Legami di paese, diciamo.
I pentiti parlerebbero di appalti edili. Ma Montante, oltre che di bici, si occupa di ammortizzatori per veicoli industriali, con la sua Mediterr Shock Absorbers. Le accuse, le voci, le ipotesi, sarebbero molto pesanti. Anche perché il 52enne nisseno è il delegato di Confindustria nazionale per la legalità e da poche settimane Alfano lo ha nominato membro dell'Agenzia nazionale dei beni confiscati (non ho ancora capito se fosse una Montante la bici da 3mila euro che provarono a rubare ad Angelino...). Naturalmente Montante incassa la stima, il sostegno e reazioni ben al di là della solidarietà di maniera, da parte di Lo Bello, di Squinzi e di tutto quell'ambiente che sembra tornare a voler fare dell'antimafia una bandiera anche politica. E infatti la svolta della legalità ha avuto un ruolo fondamentale nel favorire l'elezione di Crocetta alla presidenza della Regione. Dopo due condannati per mafia, non dimentichiamolo.
Da una parte c'è chi parla di delegittimazione. In Sicilia capita. Dall'altra parte però si rimprovera a Montante di essere approdato in tempi molto recenti nella grande famiglia antimafiosa. I grillini gli chiedono un passo indietro. Finiamo sempre lì, nella gara a chi ce l'ha più... pulito.
sabato 7 febbraio 2015
Tassintegrati
Nelle redazioni dei giornali italiani, il sabato c'è una certezza. Arriva puntuale una ricerca della Cgia di Mestre, quella strana associazione di categoria degli artigiani che riempie i vuoti dell'informazione nei weekend con indagini non sempre inappuntabili. Ma tant'è, il segretario Giuseppe Bortolussi, noto anche per la batosta micidiale presa alle regionali del Veneto nel 2010 da vittima sacrificale del centrosinistra contro la corazzata leghista (siede ancora in consiglio regionale), risulta uno dei personaggi più citati dalle agenzie di stampa e in tv.
L'ennesima ricerca, quella pubblicata oggi, fotografa (fotograferebbe) la situazione del carico fiscale in Italia, confrontando il gettito versato dai lavoratori dipendenti, dagli autonomi, dai pensionati e dalle imprese. La parola che tutti i giornali utilizzeranno per descriverla è "tartassati", aggettivo che in particolare compare nella frase "i più tartassati sono i lombardi, poi quelli del Lazio e gli emiliani". Vivo a Bologna e ho vissuto a Milano, quindi capisco benissimo. Ma sono siciliano, e dunque non posso ignorare che, secondo il centro studi del mancato dottor Bortolussi, noi siciliani (si riferisce ovviamente a chi vive in Sicilia) siamo i più "leggeri". Se un lombardo paga in media 11.386 euro allo Stato e ai vari livelli di governo locale, un residente in Sicilia ne pagherebbe solo 5.598. La metà. La media nazionale è di 8.824 euro. Posso immaginare dunque le litanie para-leghiste sul Sud parassita e assistito, a carico del Nord virtuoso e creditore. Ma tutto sommato è lo stesso Bortolussi che prova a darne una spiegazione razionale: «Questi dati dimostrano come ci sia una corrispondenza tendenzialmente lineare tra il gettito fiscale, il livello di reddito e, in linea di massima, anche la qualità/quantità dei servizi offerti in un determinato territorio. Dove il reddito è più alto, il gettito fiscale versato dai contribuenti è maggiore e, in linea di massima, gli standard dei servizi erogati sono più elevati. Essendo basato sul criterio della progressività, è ovvio che il nostro sistema tributario pesa di più nelle regioni dove la concentrazione della ricchezza è maggiore». Banale, scontato, ma ragionevole. Una ottima analisi da weekend. D'altra parte, è l'articolo 53 della Costituzione a dire che «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva».
Così il titolone è garantito, gli amici lombardi ed emiliani avranno le loro ragioni a lamentarsi, mentre i siciliani avremo gli occhi addosso. E magari non avremo modo di "discolparci" e sottolineare che appunto le cose andrebbero relativizzate. Forse la Cgia potrebbe pensare, per sabato prossimo, a chiarire il reale carico fiscale in base a reddito e situazione occupazionale. Ma sabato prossimo è san Valentino: magari ci spiegherà l'amore ai tempi della crisi.
L'ennesima ricerca, quella pubblicata oggi, fotografa (fotograferebbe) la situazione del carico fiscale in Italia, confrontando il gettito versato dai lavoratori dipendenti, dagli autonomi, dai pensionati e dalle imprese. La parola che tutti i giornali utilizzeranno per descriverla è "tartassati", aggettivo che in particolare compare nella frase "i più tartassati sono i lombardi, poi quelli del Lazio e gli emiliani". Vivo a Bologna e ho vissuto a Milano, quindi capisco benissimo. Ma sono siciliano, e dunque non posso ignorare che, secondo il centro studi del mancato dottor Bortolussi, noi siciliani (si riferisce ovviamente a chi vive in Sicilia) siamo i più "leggeri". Se un lombardo paga in media 11.386 euro allo Stato e ai vari livelli di governo locale, un residente in Sicilia ne pagherebbe solo 5.598. La metà. La media nazionale è di 8.824 euro. Posso immaginare dunque le litanie para-leghiste sul Sud parassita e assistito, a carico del Nord virtuoso e creditore. Ma tutto sommato è lo stesso Bortolussi che prova a darne una spiegazione razionale: «Questi dati dimostrano come ci sia una corrispondenza tendenzialmente lineare tra il gettito fiscale, il livello di reddito e, in linea di massima, anche la qualità/quantità dei servizi offerti in un determinato territorio. Dove il reddito è più alto, il gettito fiscale versato dai contribuenti è maggiore e, in linea di massima, gli standard dei servizi erogati sono più elevati. Essendo basato sul criterio della progressività, è ovvio che il nostro sistema tributario pesa di più nelle regioni dove la concentrazione della ricchezza è maggiore». Banale, scontato, ma ragionevole. Una ottima analisi da weekend. D'altra parte, è l'articolo 53 della Costituzione a dire che «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva».
Così il titolone è garantito, gli amici lombardi ed emiliani avranno le loro ragioni a lamentarsi, mentre i siciliani avremo gli occhi addosso. E magari non avremo modo di "discolparci" e sottolineare che appunto le cose andrebbero relativizzate. Forse la Cgia potrebbe pensare, per sabato prossimo, a chiarire il reale carico fiscale in base a reddito e situazione occupazionale. Ma sabato prossimo è san Valentino: magari ci spiegherà l'amore ai tempi della crisi.
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