sabato 27 agosto 2011

Libero non è il nome, ma l'aggettivo

Chi era Libero Grassi?
Rispondere a questa domanda potrebbe aver contribuito a farmi superare l'esame di ammissione alla scuola di giornalismo Tobagi di Milano. Non è orgoglio personale o chissà quale vanto. La risposta peraltro era semplice e stringata: "un imprenditore ucciso dalla mafia a Palermo nel 1991". Aggiungevo però "dimenticato da molti" e "abbandonato nella sua battaglia". Ecco, è l'obbligo del ricordo che conta. Quella su Libero Grassi era una delle tante domande di quel colloquio, una delle tante sulla mafia.
La "lapide di carta"
Chi era Libero Grassi? Libero Grassi era nato a Catania ma la sua famiglia si trasferisce a Palermo quando lui ha otto anni. Libero, un nome non casuale. Famiglia antifascista e un nome in memoria del sacrificio di Giacomo Matteotti. Un aggettivo più che un nome, diceva lui stesso: libero, più che Libero. E allora la libertà è la cifra della sua vita; libertà nel rispetto delle regole e nell'onestà. Non racconterò qui la biografia di Libero Grassi, la storia della sua vita, purtroppo devo parlare della sua morte (ma invito a leggere la biografia sul sito dell'Istituto Tecnico Commerciale a lui intitolato a Palermo).
Libero è un imprenditore del settore tessile e dagli anni Ottanta iniziano i problemi con la mafia. Libero è onesto, coerente e libero: non paga, non pagherà mai il pizzo. E lo dice chiaramente agli stessi estorsori. Le richieste e le minacce sono tante, però. Libero Grassi è solo nella sua Palermo, uno dei pochi che non si piegano al racket, appunto "abbandonato nella sua battaglia". Palermo, la Sicilia, l'Italia intera cominciano a conoscere Libero e il suo "no al pizzo" il 10 gennaio 1991.
Sul Giornale di Sicilia viene pubblicata una lettera di Grassi, indirizzata al "caro estortore":
«...volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l'acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere... Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al "Geometra Anzalone" e diremo no a tutti quelli come lui»
Senza il coraggio, l'onestà e la dignità dell'uomo libero/Libero non ci sarebbero oggi i ragazzi di Addiopizzo, «la realtà che contrasta Cosa Nostra senza retoriche, senza pretendere finanziamenti pubblici, convinti che le loro azioni costruiscono un futuro vivibile, un futuro etico a favore della società; che studia, lavora, produce reddito, che finalmente è riconosciuta dallo Stato che ci piace». Parola di Pina Maisano, vedova di Libero Grassi. Dopo quella lettera, un improvviso interesse per Grassi si anima in tutto il Paese e non solo. Grazie alle interviste che rilascia, soprattutto quella su Rai3 nella Samarcanda di Santoro (11 aprile 1991), Libero Grassi diventa un simbolo nazionale della lotta civile contro la mafia. Ma quanto dura? Quant'è vera la preoccupazione delle istituzioni? La storia si ripete troppo spesso e Libero Grassi rimane "abbandonato" anche dopo quel breve periodo di ipocrita interesse pubblico. Ipocrita perché nessuno, nella politica e nelle istituzioni, fece qualcosa per proteggere Libero Grassi e per estendere la sua lotta alla mafia.
L'imprenditore aveva rifiutato la scorta personale ma aveva chiesto protezione per gli stabilimenti della sua azienda, la SIGMA. Invece alle 7.30 del 29 agosto del 1991 Libero era solo e senza protezione, quando fu ucciso dalla mafia (condannati, tra gli altri, Totò Riina, Bernardo Provenzano e Giuseppe Piddu Madonia). L'indignazione cominciò a esserci, forse più a livello nazionale ed europeo. Il giorno dopo la morte, il Corriere della Sera pubblicò un'altra lettera di Grassi. Lì denunciava le associazioni imprenditoriali che non si impegnavano contro il pizzo. Ivan Lo Bello in effetti doveva ancora arrivare... Ma ce n'era anche per alcune decisioni della magistratura e delle istituzioni. Le istituzioni si ricordarono di lui con la medaglia d'oro al valor civile conferita il 14 febbraio 1992. Cinque mesi e mezzo dopo.
Invece meno di un mese dopo l'omicidio, il 26 settembre 1991, Michele Santoro e Maurizio Costanzo conducono su Rai3 e Canale5 una puntata congiunta dei rispettivi programmi, dedicata a Libero Grassi e all'antimafia. Io non ricordo molto della morte di Grassi, ma quella trasmissione la ricordo. La ricordavo anche prima delle repliche e delle riproposizioni televisive degli ultimi anni: la trasmissione (mi sono sempre chiesto se Rita dalla Chiesa si sia mai rivista in quelle immagini, ndr) è quella ormai famosa in cui un allora giovane e democristiano Totò Cuffaro attaccava "certa magistratura". Giovanni Falcone era sul palco, ma pare non ce l'avesse con lui.

mercoledì 24 agosto 2011

I tempi stanno per Zambiare

Lo Zambia, già Rhodesia del Nord, è uno Stato dell'Africa australe, conosciuto soprattutto per le meravigliose cascate Vittoria. Un Paese povero, o meglio con accentuata sperequazione nella distribuzione della ricchezza. Un Paese con basso indice di sviluppo umano (Hdi), nonostante un buon tasso di alfabetizzazione: sono purtroppo alte la mortalità infantile e l'incidenza dell'Hiv/Aids. Nella classifica di Transparency International per il 2010, lo Zambia è alla 101esima posizione (punteggio 3,0), cioè è un Paese piuttosto corrotto, anche se la situazione è migliorata negli ultimi anni, durante i quali, tra l'altro, l'economia nazionale è cresciuta molto.
La domanda è legittima: che c'entra questa divagazione enciclopedica con un blog sulla Sicilia? C'entra, c'entra. L'Italia è messa sicuramente meglio dello Zambia. Crisi a parte, gli indicatori dello sviluppo sono migliori di quelli africani, non c'è dubbio. Certo, se lo Zambia fa 3, noi non arriviamo a 4: il punteggio italiano nella classifica dei Paesi corrotti è 3,9 (67esima posizione). C'è però qualcosa che fino a oggi ci rendeva più arretrati dello Zambia.
Cristina Fazzi, 46 anni, è un medico di Enna. Da anni lavora in Africa, è un medico missionario a Ndola, nella regione zambiana del Copperbelt, la "cintura di rame" al confine con la "mia" Repubblica Democratica del Congo. Un medico single e presidente dell'organizzazione umanitaria Twafwane Association. Ha in affido legalmente cinque bambini in Zambia. Legalmente, non stiamo parlando di Madonna che preleva arbitrariamente bambini in Malawi. Ora il Tribunale dei minori di Caltanissetta (giudici Piergiorgio Ferreri e Francesco Pallini) ha recepito la sentenza di una corte zambiana e riconosce la dottoressa Fazzi come madre adottiva di uno dei bambini, Joseph, sette anni (qui il testo della sentenza). Joseph Maboshe, nato a Miengwe Masaiti, è orfano di entrambi i genitori (la mamma è morta di parto) e dal 2004 è in affido a Cristina Fazzi, che ha visto riconosciuta l'adozione in Zambia nel 2008. Gli altri quattro bimbi rimangono in affido a Cristina in qualità di presidente dell'associazione: non sono adottabili, ma l'istituto dell'affido, in Zambia, dura fino ai 19 anni.
A sud di Tunisi ha raccolto la soddisfazione e la felicità di Cristina Fazzi:
«Io vivo in Zambia da 12 anni ed essendo residente all'estero ho potuto adottare anche se single (perché in Zambia è consentito... e persino come adozione piena) e poi chiedere il riconoscimento. In Italia la legge c'è da tantissimi anni ma praticamente credo che sia la prima volta che viene applicata, considerato lo scalpore che ha suscitato la notizia. Certo, mi aspettavo che la notizia avrebbe destato un po' di curiosità... ma non fino a questo punto. Spero proprio che questa legge cominci ad essere applicata più spesso e, con un pizzico di orgoglio, sono proprio contenta che una sentenza così "moderna" sia stata pronunciata da un tribunale siciliano».
Forse solo chi in Africa c'è stato (e io ci sono rimasto solo pochi mesi...) può capire cosa significhi vedere bambini soli e sofferenti. La comprensibile ma a tratti ipocrita emotività delle immagini televisive spiega poco. Cristina Fazzi è una madre single. Cristina Fazzi è una madre. Questo conta, Joseph è suo figlio, e il riconoscimento di un tribunale italiano sicuramente nulla aggiunge all'amore e all'affetto di una madre. Però è una sentenza che finalmente potrebbe renderci a pieno titolo un membro di quel cosiddetto mondo civile. Mondo civile nel quale non meriteremmo di stare finché saremo così arretrati in materia di adozioni e affidamento dei minori.
Tanto ci sarà sempre qualcuno che metterà in dubbio l'opportunità di dare un bambino in adozione a una donna non sposata. Si dirà che la priorità è il bene del bambino, che deve avere un padre e una madre. Nel caso specifico, siccome in Africa ci sono stato, immagino – sono cattivo?  che la priorità vera sia quella di mantenere orfanotrofi e istituti di accoglienza, ai quali è facile far arrivare fondi di sostegno e offerte per le cosiddette adozioni a distanza. Ma, ripeto, penso male.
Sei mesi fa la Cassazione aveva invitato il Parlamento ad aprire, in casi limitati, all'adozione per i single. Come spesso accade, non se la prendano cardinali e prelati, è la legge stessa che lo prevede. Secondo l'interpretazione corrente della Suprema Corte, la Convenzione europea sull'adozione dei minori, firmata a Strasburgo nel 1967, non preclude esplicitamente ai single la possibilità di adottare un minore. Naturalmente ciascun caso va trattato singolarmente secondo le proprie caratteristiche: è per questo che esistono giudici e tribunali. L'adozione di Joseph è stata riconosciuta anche in Italia per la "constatata impossibilità di affidamento preadottivo" e per il "preesistente rapporto stabile e duraturo fra minore e adottante, quando il minore sia orfano di padre e di madre", come recita la legge 184/1983 (art. 44). Una legge che permette di concedere l'adozione ai single in casi particolari, appunto.
La sentenza di Caltanissetta potrebbe diventare un importante precedente. Intanto Joseph ha una mamma.

domenica 21 agosto 2011

Tra le celle dei francescani e quelle dei detenuti

Oggi sono riuscito finalmente a visitare l'ex chiesa-convento di Santa Maria del Gesù a Modica Alta e vedere il meraviglioso chiostro. Da questo pomeriggio anche io mi aggiungo alla lista dei modicani  e non solo, a giudicare dal libro dei visitatori  che dopo decenni hanno potuto godere di questo capolavoro dell'architettura e dell'arte sacra. Il monumento nazionale si trova in via Don Bosco, 43 ed è aperto al pubblico il sabato e la domenica, ore 10-13 e 17-20.
Certo, le foto non possono spiegare due sentimenti particolari del momento: il silenzio che fa ripiombare nell'atmosfera della clausura monastica e la sensazione strana di trovarsi a pochi metri dai detenuti della casa circondariale di Modica. Mentre passeggiavo incredulo per il chiostro e per la loggia e nella chiesa, lì accanto c'erano anche i ragazzi che ho conosciuto e con cui ho lavorato. Il chiostro avrei potuto vederlo quando lavoravo in carcere, e invece l'ho visto ora che sono "fuori".



giovedì 18 agosto 2011

Ad ovest di Paperoga

In una memorabile storia Disney disegnata dal grande Giorgio Cavazzano, Paperino e il cugino maldestro Paperoga sono allenatori di una scarsissima squadra di calcio. Dopo l'ennesima sconfitta, Paperoga promette che alla partita successiva la squadra farà risultato. Finirà 7-0. Un giornalista chiede allora (nei fumetti i colleghi fanno sempre domande scomode, ndr): «Mister, ma aveva detto che avreste fatto finalmente risultato». Paperoga, il papero yoga, non si scompone: «Beh, anche 7-0 è un risultato».
Parafrasando il maestro Paperoga, anche lo 0% è una percentuale. Lo zero per cento (zero, non zero-virgola-qualcosa) sarebbe la percentuale di introiti fiscali siciliani che contribuiscono alla spesa pubblica nazionale. Questo dice il dottor Franco Manzato, assessore leghista all’Agricoltura della regione Veneto. Una premessa doverosa, che non è una lavata di mano pilatesca: io di economia e finanza non sono un esperto. Non azzarderò quindi commenti tecnici su queste materie, però ammetto che lo 0% mi sembra una cifra davvero strana. La mia regione, lo so benissimo, è terra di sprechi, disservizi, burocrazia e sperpero di denaro pubblico. I primi a rimetterci, e lo dico anche all’assessore veneto, sono i cittadini siciliani; su di loro – cioè anche su di me che vivo in terre padane – gravano le spese assurde per mantenere un apparato amministrativo e burocratico regionale totalmente insensato. È innegabile che in Sicilia (ma anche nelle altre regioni del centro-sud e nelle altre a statuto speciale) le voci di spesa superino le entrate fiscali. Tutto confermato dai dati statistici ufficiali e certificato dall'indignazione degli stessi siciliani. Magari non tutti, ma qualche siciliano è "incazzatissimo" tanto quanto Manzato…
Io non so davvero come sia calcolato quello zero per cento. Il paradosso è che questa percentuale sarebbe corretta se venisse attuata un’interpretazione ultra-autonomista dello Statuto, per la quale la totalità delle imposte riscosse in Sicilia dovrebbe rimanere sul territorio regionale, mentre lo Stato italiano – secondo l'art. 38 – dovrebbe fornire annualmente una somma da impiegare nella realizzazione di lavori pubblici. Su questo si giocano molti dei conflitti tra lo Stato e la Regione Siciliana, perché l’articolo prevede una sorta di piano quinquennale e invece alla Sicilia arriverebbe solo una somma forfettaria.

martedì 16 agosto 2011

Dica trentatré

Due province e trentuno comuni. Totale 33 (trentatré) amministrazioni a rischio di taglio, scomparsa, accorpamento, riordino. Insomma, trentatré sono gli enti territoriali siciliani da tagliare secondo la manovra finanziaria del ministro Tremonti. Concedetemi un po' di forzata ingenuità: trovo perlomeno curioso che nell'arco di un mese si sia passati dalle barricate contro l'abolizione delle province al risveglio delle coscienze e alla necessità di tagliare province e comuni che non rispondono più a certi criteri (se mai vi hanno risposto...). Ma la mia ingenuità è appunto forzata.
Dicevamo trentatré. Le due province a rischio sono Enna e Caltanissetta. Fin qui nulla di nuovo. Entrambe sono sotto le soglie di 300 mila abitanti e 3.000 chilometri quadrati di estensione. I comuni andranno distribuiti tra le province vicine, oppure ci sarà l'accorpamento. E intanto però è a uno stadio avanzato la proposta di creare la provincia di Gela. Duecento anni fa, la provincia nissena comprendeva il 40% del territorio dell'allora Castrogiovanni (cioè la stessa Enna). Prima ancora che Tremonti e il Cdm varassero la manovra, in realtà l'accorpamento Enna-Caltanissetta era stato già ipotizzato alla fine di luglio da Giuseppe Castiglione, presidente della provincia di Catania e dell'Upi (Unione delle Province Italiane). E oltre a questa coppia, Castiglione proponeva pure l'accorpamento tra Ragusa e Siracusa; però queste due soddisfano quei famosi criteri di popolazione e/o estensione territoriale. La reazione congiunta dei presidenti di queste quattro province è stata improntata alla prevedibile difesa d'ufficio degli enti in questione, più qualche provocazione. Della serie: allora perché non fare due macro-province, Sicilia occidentale e Sicilia orientale, oppure abolire la Regione? Tutto ciò in Sicilia, dove il presidente Lombardo insiste - finora a parole - sull'abolizione integrale delle province, ma anche dove lo status di autonomia funge da pretesto per impugnare decisioni romane. Come del resto fanno la Sardegna o il Friuli-Venezia Giulia.