Franco La Torre non aveva ancora 26 anni quando nel 1982 il padre Pio, allora segretario regionale del Pci in Sicilia e fautore della grande rivoluzione antimafia della confisca dei beni, fu ucciso da Cosa Nostra. Oggi di anni ne ha 66 e da quasi trenta porta avanti una battaglia contro il sistema di potere politico-mafioso. Nel 2021 ha pubblicato L’antimafia tradita , in cui denunciava la deriva di un movimento chiuso in se stesso, autoreferenziale, a volte ipocrita. Non vuole commentare il caso di Daniela Lo Verde, preside della scuola “Giovanni Falcone“ allo Zen di Palermo, icona antimafia arrestata per corruzione ("sono dispiaciuto, ma non parlo di indagini in corso, nessuno è colpevole fino all’ultimo grado di giudizio"), eppure non si sottrae all’analisi delle storture di un’antimafia, appunto, tradita.
La Torre, che cosa è successo all’antimafia?
“A fronte di una ricetta straordinaria, grazie alla legge che porta il nome di mio padre, oggi abbiamo un’antimafia sociale diffusa nel territorio inimmaginabile quarant’anni fa. Da Udine a Mazara del Vallo è pieno di associazioni, comitati, piccoli gruppi che fanno un lavoro straordinario. La questione è la loro fragilità: sono esperienze molecolari, non hanno la possibilità di confrontarsi e spesso producono fenomeni di autoreferenzialità. Della serie: “noi siamo i più bravi del mondo a fare quello che facciamo“. Un limite che si può superare solo con il confronto”.
Confronto e anche controllo...
“Certo. Se ci fossero più occasioni di dialogo tra le varie realtà antimafia, potrebbero emergere anche le cose che non vanno. Ad esempio, se non mi presento a un incontro, alla fine perdo credibilità e gli altri iniziano a farsi venire dei dubbi. Magari scoprendo che era tutto finto”.
Perché c’è così tanta personalizzazione nell’antimafia?
“Perché è un ottimo strumento. Perché ti promuove. Perché è una buona pubblicità. Perché io sindaco, per dire, posso poi appuntarmi al petto la coccarda di aver sostenuto una buona azione. Perché alcuni avvocati creano le associazioni per costituirsi parte civile, e passano per movimenti antimafia: ma è solo il loro lavoro. Perché aiuta a far carriera. Fino ad arrivare alle conseguenze più tragiche, tipo fare il paladino dell’antimafia e poi risultare mafioso: si usa l’antimafia come copertura, e la mafia l’ha capito da tempo”.
Arriviamo allora a quella famosa e tanto discussa definizione, i “professionisti dell’antimafia“ di Leonardo Sciascia... Si finisce sempre lì?
“Le situazioni controverse, gli errori e le esagerazioni vanno sempre condannati, stigmatizzati, senza però buttare via il bambino con l’acqua sporca, perché non sono tutti imbroglioni. Bisogna partire dal presupposto che c’è un’antimafia tradita. In fondo, è come l’antibiotico: da sola non basta, e va aiutata”.
Come si può aiutarla?
“Facendo parlare tra di loro movimenti e attivisti. Le istanze collettive rendono più forte la voce, anche e soprattutto per farsi sentire dalle istituzioni. Ci si lamenta sempre che l’antimafia è assente dall’agenda politica. Ma non sempre la politica è illuminata o sa ascoltare”.
Bisogna saper farsi sentire.
“Sì, ma per farsi sentire si deve alzare la voce. Cantando in coro, per dirla con una metafora”.
Dove sta andando l’antimafia?
“Va avanti. Noi siamo il Paese dell’antimafia, l’unico al mondo. Non siamo più il Paese delle mafie, ormai ce ne sono anche altrove, magari più potenti delle nostre. Ma al di là di questo, sicuramente l’Italia, grazie a strumenti normativi, istituzioni e una coscienza civile diffusa, è il luogo dell’antimafia”.
[intervista pubblicata su Quotidiano Nazionale]
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