Ottantacinque anni, siciliano, giudice costituzionale dal 2015, Barbera ci accoglie in uno studio pieno di libri, riviste, pubblicazioni straniere, ma anche oggetti che rivelano curiosità intellettuale e passioni oltre il diritto. Come l’interesse per la medicina («da autodidatta: sono patofobo»). O come la collezione di statuine di Sant’Antonio da Padova davanti ai volumi della rivista Giurisprudenza Costituzionale. «Perché Sant’Antonio? Perché io mi chiamo Augusto Antonio: Augusto lo scelse mio padre, sa, erano gli anni in cui l’Italia pensava all’impero... Antonio invece lo volle mia madre, devotissima».
Che presidente sarà Augusto Barbera? In un clima di contrapposizioni, non si rischia che la Corte venga tirata per la giacchetta, per arruolarvi pro o contro governo?
«Una cosa è certa: se dovesse verificarsi uno scenario del genere deluderò gli uni e gli altri. Da quando sono stato eletto giudice costituzionale, mi impongo una regola: lasciare fuori dal portone della Corte il proprio passato, che nel mio caso appartiene alla politica, visto che sono stato in Parlamento e, per un breve periodo, anche ministro nel governo Ciampi. Tutto questo, compreso il mio ruolo di promotore dei referendum elettorali negli anni Novanta, appartiene a un’altra vita».
Ecco, un’altra vita. Partiamo dall’inizio: quando è arrivato a Bologna?
«In Emilia nel 1970. Prima ero libero docente a Catania, dopo il matrimonio io e mia moglie siamo andati a vivere a Ferrara, dove presi la cattedra che aveva lasciato Leopoldo Elia. Un anno dopo ci siamo trasferiti a Bologna. Per quattro anni sono stato responsabile della commissione giuridica della neonata Regione Emilia-Romagna».
Poi c’è stata la politica.
«Nel 1976 sono diventato parlamentare, con il Pci e il Pds, per cinque legislature, alcune “mini“. L’ultima, per esempio, è durata due anni, dal 1992 al ’94».
Ed è stato ministro...
«...per poco. Io ero stato tra i protagonisti dei referendum elettorali. Dopo il 18 aprile 1993, con la vittoria del maggioritario, si formò il governo Ciampi e io divenni ministro per i Rapporti con il Parlamento. Poi ci siamo dimessi dopo la mancata autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi. C’era la sollevazione popolare – ricordate le monetine all’hotel Raphaël? – e Achille Occhetto, leader del Pds, decise che quel Parlamento non poteva restare in piedi e bisognava andare a nuove elezioni. Uscimmo dal governo, ma fu un errore».
Lasciaste il governo per una questione di principio?
«Quella nostra assurda uscita dal governo avvenne per una scelta populista, perché le piazze protestavano. Devo dire che una certa dose di populismo l’avevamo portata anche noi con la pur sacrosanta riforma del sistema elettorale in senso maggioritario, che portò, tra l’altro, all’elezione diretta dei sindaci. Però forse si era esagerato: io infatti non partecipai al referendum sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti».
Tangentopoli è stato forse l’ultimo momento di frattura dirompente in Italia. Poi ci sono stati grandi eventi internazionali. Che cosa hanno lasciato quegli anni?
«C’è la vulgata che i partiti siano crollati in quell’occasione, per colpa del movimento referendario. Io invece ho sempre capovolto questa vulgata: noi potemmo portare avanti quelle iniziative proprio perché i partiti erano già deboli. Il Paese non accettava più che anche per la più modesta delle opere pubbliche si dovesse pagare la tangente...».
Senza entrare nel merito dei partiti, qual è lo stato della democrazia, anche in Europa?
«Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo una crisi della intermediazione, che colpisce dai partiti alla stampa. Adesso prevalgono i social e la stessa tv va verso il basso. I talk show ormai sono costruiti come una sceneggiata, sempre con gli stessi personaggi ai quali vengono affidati determinati ruoli come nella commedia dell’arte».
E il rapporto tra il cittadino e la giustizia?
«Ai cittadini dà fastidio dover aspettare anni per la giustizia civile, invece i gruppi dirigenti sentono di più il problema dell’azione penale».
Adesso siamo al momento in cui si torna a parlare di riforme, forse più che in passato.
«Io ho iniziato a occuparmi di riforme dagli anni Ottanta, ma tutto ciò appartiene, appunto. a un’altra vita. Ora non posso continuare a occuparmene ma questo non significa che la Corte sia estranea ai processi di revisione costituzionale. Alcuni paletti li abbiamo già: la Corte può valutare le riforme della Costituzione se in contrasto con i principi fondamentali. Ma i progetti fin qui presentati non hanno mai toccato questi supremi principi. Altri paletti, desumibili dalle sentenze della Corte, sono legati al sistema elettorale: è legittimo prevedere un premio di maggioranza ma con una soglia ben definita; se si vuole eliminare il voto di preferenza bisogna ricorrere al collegio uninominale o a circoscrizioni piccole; poi c’è il tema delle soglie di sbarramento. Ma il paletto più importante è rappresentato dalle procedure previste all’articolo 138 della Costituzione: la maggioranza dei due terzi per fare le riforme costituzionali e l’eventuale referendum se ciò non avvenisse».
I due terzi rappresentano un consenso ampio...
«Sarebbe meglio, ma è legittima anche la strada del referendum».
Vede un rischio di lesione dell’indipendenza della Corte?
«Un certo costituzionalismo ansiogeno ha iniziato a dire “ora tenteranno di occupare la Consulta“. Ma ciò non è possibile: per eleggere i cinque giudici di nomina parlamentare servono numeri che l’attuale maggioranza da sola non ha. Sono inevitabili, dunque, le convergenze politiche».
E per quanto riguarda la riforma principale, il premierato?
«Sul punto non rispondo. Posso dire, tuttavia, che il presidente del Consiglio italiano non ha i poteri che hanno altri primi ministri, rafforzati, in alcuni Paesi, dal voto a data certa del Parlamento sui provvedimenti presentati dal governo. E questo, da noi, porta ad alcune anomalie. Per esempio, i decreti legge sono una singolarità italiana ma anche i maxi emendamenti, su cui viene posta la fiducia, che vengono utilizzati da tutti i governi. Avere un potere politico forte non è un male, purché sia legittimato».
A proposito di poteri forti, l’Europa deve farsi Stato?
«Non è facile, dubito che si possa farlo nel giro di qualche anno o decennio, però è un’evoluzione necessaria se si vuole che possa competere con la Cina o con l’India o con gli Stati Uniti. Da costituzionalista, posso dire che nella storia uno Stato si ha quando c’è un’unica moneta, e questa ce l’abbiamo, ma servono anche un’unica politica fiscale, estera e di difesa. In realtà, manca anche una lingua unica, non è banale. Però sull’energia qualcosa è stata fatta».
Che ruolo può avere la Corte in un periodo di crisi della politica e dei corpi intermedi?
«Io direi piuttosto che effetti può avere questa situazione sul ruolo della Corte. Il primo è che noi abbiamo tentato delle strade per coinvolgere il Parlamento, come sul fine vita, senza però riuscire a ottenere risultati. Come sta avvenendo sempre sul fine vita, se non interviene il Parlamento sono costretti a muoversi tribunali e regioni. Se ci sono dei vuoti, qualcuno va a occuparli. La Corte è nata per limitare il potere, ma anche per garantire i diritti. E come dice la stessa Costituzione all’articolo 3, spetta alla politica rimuovere gli ostacoli. Adesso sono però i poteri privati, come le multinazionali o i colossi del web che possiedono i nostri dati, a limitare i diritti. Concetti sacrosanti, questi, ribaditi da ultimo dal presidente Mattarella».
Il tema dei diritti civili è uno di quelli su cui la Consulta è intervenuta maggiormente...
«Un altro capitolo sono le unioni civili e il riconoscimento dei figli di coppie dello stesso sesso. Per esempio nel caso della gestazione per altri, che resta una pratica vietata, la Corte si è espressa in maniera inequivocabile: l’interesse del minore è sempre prioritario. Anche in questo caso c’è chi, come alcuni sindaci, riempie i vuoti, ma non sulla base di una legge. Che va fatta».
Senta, non possiamo non chiederle... chi sono le «donne impazienti»?
«Sono sinceramente dispiaciuto per l’equivoco che si è ingenerato e per questo invito tutti ad andare a riascoltare per intero il filo del mio ragionamento. Non mi sognerei mai di pensare che l’impazienza di reclamare un diritto possa in qualche modo avere un’accezione negativa. Al contrario, le donne hanno tutto il diritto di essere impazienti».
E sul caso sollevato dall’ex giudice Nicolò Zanon, il conflitto di attribuzioni sulle intercettazioni dell’onorevole Cosimo Maria Ferri?
«Prendiamo atto che il professor Zanon ha chiarito “di non aver mai parlato di ‘pressioni’ sulla Corte Costituzionale” e si è rammaricato che le sue parole possano aver ingenerato “ricostruzioni che danneggiano l’istituzione”. La Corte ha ricordato che la segretezza dei suoi lavori è posta a garanzia della piena libertà di confronto tra i giudici e dell’autonomia e indipendenza. E ha anche ribadito che tutte le sue sentenze possono essere criticate. Potrei aggiungere che, forse, si può pure discutere, nelle forme dovute, dell’introduzione dell’opinione dissenziente legata alle decisioni della Corte: ma certamente, senza di essa, l’opinione in dissenso non può essere manifestata a posteriori…».
[intervista pubblicata sul Quotidiano Nazionale]
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