lunedì 26 novembre 2012

Bar a 5 Stelle

Sono appena arrivati all’Ars e sono già agguerriti e battaglieri. I consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle, capitanati dal portavoce Giancarlo Cancelleri, candidato alla presidenza della Regione, denunciano «i privilegi a sbafo per gli “onorevoli”». A cominciare dal listino prezzi del bar di Palazzo dei Normanni, che nulla hanno da invidiare ai tanto discussi prezzi della buvette del Senato a Roma.
Una colazione completa – cappuccino, cornetto e spremuta – costa solo 2 euro, ma se ci si limita a un caffè al bancone i deputati siciliani se la cavano con 45 centesimi. Meno di quanto costi il caffè in certi distributori. Prezzi molto più bassi di quelli del mercato corrente, persino in una terra, la Sicilia, dove il costo della vita è più basso che altrove. Il bando prevede infatti testualmente che i prezzi devono essere «ribassati del 35% rispetto alla media dei prezzi di listino, consigliati dalle associazioni di categoria più rappresentative operanti nella piazza di Palermo, aggiornati alla stipulazione del contratto».
«Con 11 euro circa – scrivono i 5 Stelle sul sito siciliano del movimento – viene servito un pranzo luculliano con antipasto, primo, secondo, frutta e caffè. Per coprire quei prezzi ribassati è prevista una quota fissa di 31.000 euro oltre Iva, pagata mensilmente». Indovinate, conclude la nota di Francesco Lupo, attivista di Palermo, «chi paga la differenza».
Il problema non è solo nei prezzi agevolati offerti ai deputati del più antico parlamento d’Europa. Ci sono anche i cosiddetti “graditi”, denunciano i 5 Stelle. Si tratta dei camerieri o banconisti che, al momento della stipula del contratto (con la ditta che vince l’appalto), hanno raggiunto «una continuità lavorativa di almeno 10 anni, ancorché con diversi appaltatori» all’interno dell’Ars. Sembrerebbero lavoratori assidui da almeno 10 anni. E invece, questi “graditi” percepiscono un doppio stipendio rispetto ai loro colleghi pur svolgendo le stesse mansioni, in base a un “premio di gradimento” (di qui il nome). Oltre allo stipendio della ditta appaltante, possono percepire anche 14 mensilità aggiuntive del valore di 1.800 euro (dato aggiornato in misura al 100% della variazione Istat).
Alla faccia del caffè.

Il menù del bar alla buvette dell'Ars.
Si risparmia anche sull'ortografia

[articolo pubblicato su Affaritaliani.it]

venerdì 16 novembre 2012

Il ballo del quaquaraquà

"Agghiaccianti"
Se ne sono dette di tutti i colori soprattutto una combinazione di bianconero e nerazzurro. Si chiamano tutti e due Antonio. Uno è barese, l'altro è leccese. Vista così, la polemica tra Cassano e Conte è un bel miscuglio di rivalità calcistiche e campanilismi. Ma c'è qualcosa che va oltre la Puglia e oltre la serie A. Oltre i soldatini, i professionisti e le supposte moralità. E oltre la "simpatia" degli interpreti di questa farsa. Tra le altre cose, infatti, i due contendenti si sono reciprocamente accusati di essere quaquaraquà.
Un termine bellissimo, nella sua cruda e inequivocabile efficacia. Cosa c'è di meglio di quaquaraquà per descrivere uno che parla tanto, anzi troppo, e alle parole non fa seguire i fatti?
Cito testualmente la definizione che ne dà il dizionario enciclopedico Treccani:
Quacquaraqua (o quaquaraquà) s. m. e f. [voce fonosimbolica, che ricorda il verso delle oche: v. qua1 e cfr. quacquarare]. – Voce sicil., ma diffusa anche altrove, con cui si allude genericam. a chi parla troppo, quindi chiacchierone (e, nel gergo della mafia, delatore), o anche a persona alla cui loquacità non corrispondono capacità effettive, e perciò scarsamente affidabile.
Fonosimbolica, cioè onomatopeica. "Qua qua qua": sequenza di suoni e versi rumorosi ma inconcludenti, dunque. La definizione è chiara, da parte dei due Antonio. Parli troppo, e sai fare solo quello. La parola in questione è siciliana, ma ormai la utilizzano in tanti, soprattutto nel resto del sud Italia. Una parola che ha avuto successo. Chissà, può darsi che Conte, da buon salentino, la utilizzi anche perché il suo è un dialetto della lingua siciliana...
Ma della diffusione di quaquaraquà è "responsabile" sicuramente un siciliano. Leonardo Sciascia. Se ormai questa parola è entrata nel linguaggio comune, il merito è del suo capolavoro Il giorno della civetta. La definizione della Treccani si conclude in effetti con uno stralcio del passo più celebre e citato di quel libro del 1961, la frase di don Mariano Arena, il boss del paese. Una tassonomia, una classificazione del mondo che vale la pena rileggere per intero.
«Io [...] ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, chè la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…»

martedì 13 novembre 2012

Nessuno tocchi Anthony Farina

Santo Stefano di Camastra è un comune di 4.500 abitanti del parco dei Nebrodi, in provincia di Messina ma quasi al confine con il palermitano. È conosciuto come il “paese delle ceramiche”. Qui potrebbe cominciare la seconda vita di Anthony Farina. Se lui lo vorrà, naturalmente.
Farina è un cittadino statunitense, originario di Santo Stefano, da 20 anni in carcere per una rapina commessa a Daytona Beach, in Florida. Nello “Stato del Sole” è stato condannato per questo alla pena di morte. Aveva 18 anni, nel 1992, quando insieme al fratello sedicenne Jeffrey, rapinò un fast food. Il fratello sparò e uccise una dipendente, ma essendo minorenne all’epoca dei fatti la sua pena è stata tramutata in ergastolo, con la possibilità di ottenere la libertà condizionata dopo 25 anni.
Anthony Joseph Farina.
Compirà 39 anni il 20 novembre 2012
(quando scadrà la proroga
dei termini per la memoria difensiva,
anche da parte dell'Italia)
Anthony, invece, pur non avendo materialmente commesso l’omicidio, si è ritrovato condannato alla pena capitale. Dopo un processo in cui il pubblico ministero aveva invocato la Bibbia per proclamarsi “agente di Dio”. In carcere Farina ha già passato la maggior parte della sua vita finora.
Per salvarlo da una condanna ingiusta e crudele nelle scorse settimane è partita una campagna, “Anthony non deve morire”, promossa da Amnesty International, Nessuno tocchi Caino, Comunità di Sant’Egidio insieme al Partito Radicale. Un’iniziativa che puntava a far concedere a Farina la cittadinanza italiana e che è riuscita almeno nel suo primo intento: il consolato italiano a Miami gliel’ha infatti rilasciata il 2 novembre. Così il governo potrà intervenire più direttamente sulle autorità statunitensi per chiedere che un cittadino italiano non venga giustiziato. E sconti la pena nel suo “nuovo” Paese.
Chi si è mosso, oltre alle associazioni abolizioniste e ai radicali, è stata la stessa comunità di Santo Stefano di Camastra. «Se c’è la sua volontà, noi saremmo ben lieti di accoglierlo», ha spiegato Francesco Re, sindaco del paese delle ceramiche. Il primo cittadino aveva inviato il mese scorso una lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e a Papa Benedetto XVI, per chiedere un loro intervento.
Francesco Re,
sindaco di
Santo Stefano
di Camastra
«Pur riconoscendo la gravità dell’accaduto – scriveva il sindaco – siamo consapevoli che bisogna dare ad ogni uomo, specie se in giovane età e soprattutto non direttamente autore del grave fatto di sangue per cui è condannato, un’opportunità di riscatto all’interno di una comunità che gli offra una diversa prospettiva di vita». Forse il Quirinale e il Vaticano non si sono mossi direttamente ma, come ha precisato Re, «c’è stata una buona partecipazione delle istituzioni, tramite l’ambasciata e il ministero degli Esteri abbiamo avuto un riscontro quasi immediato». La diplomazia italiana ha seguito da subito il caso e tutti erano fiduciosi nella concessione della cittadinanza.
Ma non basta il passaporto italiano. Adesso toccherà a Farina decidere se provare a rifarsi una vita nel paese dei suoi genitori. «Qui ci sono ancora suoi parenti, i Farina sono tanti a Santo Stefano», ricorda il sindaco Re. «Noi ci siamo mossi con il parroco e abbiamo rapporti e collegamenti con le associazioni, con l’onorevole Elisabetta Zamparutti, anche con l’associazione di don Ciotti (Libera, ndr)». A Santo Stefano di Camastra Anthony Farina potrebbe dunque trovare una comunità disposta a dargli una mano: «La nostra non sarebbe solo un’accoglienza sulla carta, per ragioni di residenza e documenti, ma vorremmo offrire un’opportunità». Una seconda chance che vuol dire anche trovare un lavoro. «Noi facciamo un appello generale – dice il sindaco – e diamo uno sguardo anche al di là del nostro comune. Non dovrebbe essere difficile trovare qualcosa, di sicuro questa parte di territorio non farà mancare il suo buon cuore».
La questione è pure giuridica. Anche in Italia, Farina verrebbe a scontare la pena, naturalmente secondo modalità e tempi che sarà la magistratura italiana a stabilire. Dopo vent’anni già passati in carcere, però, potrebbe trattarsi di una pena alternativa. D’altra parte 20 anni è il massimo che il codice penale italiano prevede per la rapina a mano armata. E Santo Stefano di Camastra è un bel paese dove vivere. Altro che Raiford, Florida. Lì c’è il braccio della morte, qui potrebbe esserci una nuova vita.

[articolo pubblicato su Affaritaliani.it]


Aggiornamento del 30 settembre 2013. La condanna a morte di Anthony Farina è stata annullata!
La Corte Federale d'Appello per l'11° Circuito degli Stati Uniti ha riconosciuto "inadeguata assistenza legale", con quel pubblico ministero che parlava di Dio e di missione divina dell'accusa. C'è di mezzo anche l'VIII Emendamento della Costituzione, quello che vieterebbe le pene crudeli. [Nessuno tocchi Caino lo spiega bene qui]
Purtroppo però la pena di morte esiste ancora, negli Stati Uniti. E un'iniezione letale è considerata non-crudele...
Anthony dovrebbe farcela, stavolta. Chissà che non torni davvero a Santo Stefano di Camastra.

martedì 30 ottobre 2012

Crocetta e delizia

Rosario Crocetta è il nuovo presidente della Regione Siciliana. Tanti auguri Saro. E tanti auguri Sicilia. Non faccio commenti, riflessioni, analisi sul voto, lascio queste incombenze a chi ne sa più di me. Mi limito a registrare l'ovvio: i siciliani hanno eletto un presidente comunista antimafia gay e cattolico. Alla faccia dell'omofobia degna del Medioevo...
Stavolta - ed è un caso rarissimo - non sono tornato a casa a votare. Quindi ho seguito tutto da lontano. Quello che è successo prima del voto, tipo i 300 dipendenti (soprattutto autisti) dell'Amat, l'azienda palermitana dei trasporti, che sabato, domenica e lunedì hanno lasciato il lavoro per fare i rappresentanti di lista. Chissà per quali partiti, mentre gli autobus restavano fermi.
Poi quello che è successo domenica, durante il voto. Come i disagi per i 50 elettori del borgo eoliano di Ginostra, da vent'anni senza seggio: possono votare solo nell'unica sezione di Stromboli. Ma non ci sono potuti arrivare, perché il mare agitato ha impedito la partenza dell'aliscafo della Compagnia delle Isole. Si dice che entro le elezioni politiche del 2013 il seggio di Ginostra sarà ripristinato.
Infine quello che è successo dopo, a partire dall'interminabile, solito, lunghissimo spoglio. Era quasi mezzanotte e mezza quando mi sono accorto che mancava ancora una sezione.
Perché?
L'ho spiegato in questo articolo pubblicato su Affaritaliani.

Ore 00.39 di martedì 30 ottobre. Mancano venti minuti all’una di notte quando il sito del servizio elettorale della Regione Sicilia viene aggiornato definitivamente, per l’ultima volta. Fino a qualche minuto prima mancava ancora una sezione da scrutinare su 5.308.
Ci sono volute più di 16 ore per completare lo spoglio delle schede delle regionali. E la colpa è stata anche di quell’ultima sezione. È successo a Mascalucia, comune di 30 mila abitanti in provincia di Catania. Lì, fino a mezzanotte inoltrata, erano stati inviati i dati definitivi di 24 sezioni su 25. Una dunque mancava ancora all’appello.
Ma per quale motivo? Tensioni al seggio? Sospetti di brogli? Schede contestate? No, semplicemente «un presidente di seggio si è impappinato», come fanno sapere dall’ufficio dei servizi elettorali del Comune. Ma i problemi ci sono stati anche in altre sezioni. Problemi “tecnici”, errori umani. «Hanno comunicato dati non corretti, hanno sbagliato», dice un responsabile dell’ufficio elettorale. Al momento dei verbali, ecco il busillis. «Forse non hanno letto bene i verbali, hanno avuto problemi nella trascrizione».
Quindi nessun rappresentante di lista a contestare fino a notte fonda una ics ambigua. Forse solo la stanchezza dopo una giornatona di lavoro tra schede e urne. Non c’entrano le tensioni elettorali, e questo è già un bene. Meglio così, dopo che già un mese fa si era rischiato persino l’incidente diplomatico, proprio a Mascalucia. Il 28 settembre in piazza San Vito era tutto pronto per il comizio di Salvatore Maugeri, sindaco dimissionario e candidato Fli a sostegno di Gianfranco Micciché, quando per sbaglio si presenta scortato Rosario Crocetta. Che invece avrebbe dovuto parlare nella vicina piazza Chiesa Madre. Tutto si è risolto in risatine e qualche imbarazzo: come giustificarsi altrimenti con chi dava per certo l’inciucio Crocetta-Micciché?
Per la cronaca, Maugeri è stato l’aspirante consigliere, pardon deputato regionale, più votato e Crocetta il candidato presidente preferito dai mascaluciesi.

sabato 27 ottobre 2012

(L')Ora e sempre Spampinato

Quarant'anni fa veniva ammazzato Giovanni Spampinato, giovane giornalista di Ragusa. Una storia di mafia, di trame segrete, di traffici illeciti svelati da un cronista caparbio. «Una storia emblematica, al pari di quelle di Peppino Impastato e Giancarlo Siani», mi ha detto Carlo Ruta, in un'intervista pubblicata su Affaritaliani. Eppure pochi conoscono la vicenda di Spampinato. Che invece merita di essere ricordata. Perché dimostra che la mafia c'è stata (e c'è) anche a Ragusa. Perché Giovanni è uno dei nove giornalisti uccisi dalle mafie in Italia. Perché mafia vuol dire anche intrecci tra poteri, istituzionali, informali e occulti. Perché fare giornalismo d'inchiesta in un certo modo significa disturbare connivenze e complicità, dare fastidio a chi si crede intoccabile.
Mi ha sempre colpito che a Giovanni Spampinato, morto qualche settimana prima di compiere 26 anni, il tesserino da pubblicista sia arrivato postumo. Era stato lasciato solo.
Perché ricordarlo? Perché non succeda più che quando si entra in una libreria e si chiede il libro di Alberto Spampinato, quirinalista dell'Ansa (C'erano bei cani ma molto seri. Storia di mio fratello Giovanni ucciso per aver scritto troppo), rispondano «Spampinato il cantante (Vincenzo, cantautore catanese, ndr)? Ma è un romanzo?».

Ecco il pezzo pubblicato su Affaritaliani, con l'intervista in cui Carlo Ruta ripercorre la storia di Giovanni Spampinato.

«Qui ci sono i fili dell’alta tensione, chi li tocca muore. E Giovanni aveva toccato quei fili». Giovanni è Spampinato e i fili mortali sono le trame, gli intrecci e le connivenze tra poteri occulti e istituzioni che il giovane giornalista de L’Ora aveva scoperto prima di morire, ucciso il 27 ottobre di 40 anni fa a Ragusa. A parlare è Carlo Ruta, giornalista, blogger e saggista, che ricorda la figura di Spampinato, morto poche settimane prima del suo 26esimo compleanno. Ruta si è occupato della vicenda soprattutto tra il 2002 e il 2005, nel 2008 ha pubblicato Segreto di mafia. Il delitto Spampinato e i coni d’ombra di Cosa Nostra. Il suo interesse gli è costato decine di querele, quasi tutte vinte, più l’assurda condanna per stampa clandestina, ora annullata dalla Cassazione, che comunque l’ha costretto a chiudere il suo blog di informazione Accade in Sicilia. Una storia complessa, quella di Spampinato, un caso a lungo sconosciuto in Italia, di cui ancora si parla poco. «Eppure è una storia emblematica, al pari di quelle di Peppino Impastato e Giancarlo Siani». 

Chi era Giovanni Spampinato?
«Era una persona molto colta, un laureando in filosofia. Non era un giornalista d’assalto e velleitario, come lo hanno voluto descrivere alcuni, non voleva fare gli scoop a tutti i costi. Era una bravissima persona, senza quei grilli per la testa di cui parlano i giornali “moderati”».
In che senso giornali moderati”?
«La stampa in Sicilia ha un orientamento moderato, in alcuni casi quasi reazionario. E parte di quell’opinione pubblica non si è mai affezionata all’idea che il delitto Spampinato sia mafioso, ma tende a registrare il fatto come una storia privata, viene fatto passare come una reazione sconsiderata dell’uccisore».
Come andarono allora le cose? Qual è la storia di Giovanni Spampinato e della sua morte?
«Spampinato fu ucciso il 27 ottobre 1972 da Roberto Campria, figlio dell’allora presidente del Tribunale di Ragusa. Probabilmente Campria era coinvolto in traffici di oggetti d’arte e reperti archeologici. Giovanni indagava anche su questo e sulla morte di un complice di Campria, l’imprenditore Angelo Tumino».
Perché è considerato un delitto di mafia?
«Il fatto è che quell’area, il sudest siciliano, è il paradiso fiscale della mafia, qui ci sono i fili dell’alta tensione e chi li tocca muore. Spampinato aveva provato a svelare quei traffici, il contrabbando di armi e di sigarette, il mercato illegale dell’arte e gli intrecci tra l’eversione nera, i colonnelli greci e la criminalità mafiosa. Ma di quelle cose non si doveva parlare e dunque Giovanni era una spina nel fianco».
Alberto Spampinato, fratello di Giovanni, dopo che nel 2007 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano conferì il premio Saint Vincent” alla memoria, aveva scritto che quelle trame occulte e quelle connivenze effettivamente erano mafiose.
«Infatti Giovanni Spampinato aveva fatto molte inchieste su quelle illegalità diffuse, sul terrorismo di estrema destra, sulla mafia, sui traffici. Forse il delitto non è di quelli mafiosi “classici”, ma è il contesto, di impunità e complicità a vari livelli, a essere mafioso».
In cosa consistevano queste complicità?
«In sede giudiziaria non furono presi in considerazione alcuni testimoni che avrebbero svelato che quella notte, sul luogo del delitto, non c’era solo Campria. Non si tratta ormai di arrivare alla verità giudiziaria, ma perlomeno a quella storica. Io ho parlato di omissioni nell’inchiesta e per questo c’è stato un accanimento: presentavano tre querele in tre tribunali sullo stesso articolo, più una quarta civile. La rimozione della vicenda Spampinato è partita subito, appena dopo il processo a Campria, che peraltro, tra sconti vari e semi-infermità, ha fatto 5-6 anni di carcere. E parliamo degli anni in cui il carcere di Ragusa era soprannominato “Hotel Bristol”. Non è un caso se molti boss mafiosi premevano per farsi portare lì».
La provincia di Ragusa è stata sempre considerata babba, senza mafia. Ma la storia di Spampinato sembrerebbe smentire questa convinzione.
«La mafia non è solo quella militare, che pure qui c’è stata. Io temevo la mafia, ma non conoscevo i metodi e l’aggressività dei poteri forti. Tutti si sentono intimiditi e ricattati, e questo è tipico di un contesto mafioso».
Che cosa significa oggi ricordare Giovanni Spampinato?
«Io ho cominciato a occuparmi della sua storia dieci anni fa, nel trentennale della morte, grazie agli articoli che aveva raccolto Etrio Fidora, ex direttore de L’Ora. C’era questo senso evidente di rimozione, non se ne doveva parlare. Qui siamo nel “cono d’ombra” di Cosa Nostra, dove tutto deve restare nascosto, segreto, coperto. Tra Vittoria e Gela ci sono state stragi di mafia persino più pesanti che a Palermo: nonostante questo, bisogna rimuovere completamente. Ancora oggi, come ai tempi di Giovanni, chi fa inchieste e analisi di un certo profilo, tocca quei pericolosi fili dell’alta tensione. E la vicenda della sala stampa del comune di Ragusa, inaugurata nel 1995 e intitolata a Giovanni, ma chiusa per lungo tempo e riaperta pochi mesi fa, dimostra che la memoria di Spampinato è pesante e dà ancora fastidio».