Mi ha sempre colpito che a Giovanni Spampinato, morto qualche settimana prima di compiere 26 anni, il tesserino da pubblicista sia arrivato postumo. Era stato lasciato solo.
Perché ricordarlo? Perché non succeda più che quando si entra in una libreria e si chiede il libro di Alberto Spampinato, quirinalista dell'Ansa (C'erano bei cani ma molto seri. Storia di mio fratello Giovanni ucciso per aver scritto troppo), rispondano «Spampinato il cantante (Vincenzo, cantautore catanese, ndr)? Ma è un romanzo?».
Ecco il pezzo pubblicato su Affaritaliani, con l'intervista in cui Carlo Ruta ripercorre la storia di Giovanni Spampinato.
«Qui ci sono i fili dell’alta tensione, chi li tocca muore. E Giovanni aveva toccato quei fili». Giovanni è Spampinato e i fili mortali sono le trame, gli intrecci e le connivenze tra poteri occulti e istituzioni che il giovane giornalista de L’Ora aveva scoperto prima di morire, ucciso il 27 ottobre di 40 anni fa a Ragusa. A parlare è Carlo Ruta, giornalista, blogger e saggista, che ricorda la figura di Spampinato, morto poche settimane prima del suo 26esimo compleanno. Ruta si è occupato della vicenda soprattutto tra il 2002 e il 2005, nel 2008 ha pubblicato Segreto di mafia. Il delitto Spampinato e i coni d’ombra di Cosa Nostra. Il suo interesse gli è costato decine di querele, quasi tutte vinte, più l’assurda condanna per stampa clandestina, ora annullata dalla Cassazione, che comunque l’ha costretto a chiudere il suo blog di informazione Accade in Sicilia. Una storia complessa, quella di Spampinato, un caso a lungo sconosciuto in Italia, di cui ancora si parla poco. «Eppure è una storia emblematica, al pari di quelle di Peppino Impastato e Giancarlo Siani».
Chi era Giovanni Spampinato?
«Era una persona molto colta, un laureando in filosofia. Non era un giornalista d’assalto e velleitario, come lo hanno voluto descrivere alcuni, non voleva fare gli scoop a tutti i costi. Era una bravissima persona, senza quei grilli per la testa di cui parlano i giornali “moderati”».
In che senso giornali “moderati”?
«La stampa in Sicilia ha un orientamento moderato, in alcuni casi quasi reazionario. E parte di quell’opinione pubblica non si è mai affezionata all’idea che il delitto Spampinato sia mafioso, ma tende a registrare il fatto come una storia privata, viene fatto passare come una reazione sconsiderata dell’uccisore».
Come andarono allora le cose? Qual è la storia di Giovanni Spampinato e della sua morte?
«Spampinato fu ucciso il 27 ottobre 1972 da Roberto Campria, figlio dell’allora presidente del Tribunale di Ragusa. Probabilmente Campria era coinvolto in traffici di oggetti d’arte e reperti archeologici. Giovanni indagava anche su questo e sulla morte di un complice di Campria, l’imprenditore Angelo Tumino».
«Il fatto è che quell’area, il sudest siciliano, è il paradiso fiscale della mafia, qui ci sono i fili dell’alta tensione e chi li tocca muore. Spampinato aveva provato a svelare quei traffici, il contrabbando di armi e di sigarette, il mercato illegale dell’arte e gli intrecci tra l’eversione nera, i colonnelli greci e la criminalità mafiosa. Ma di quelle cose non si doveva parlare e dunque Giovanni era una spina nel fianco».
Alberto Spampinato, fratello di Giovanni, dopo che nel 2007 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano conferì il “premio Saint Vincent” alla memoria, aveva scritto che quelle trame occulte e quelle connivenze effettivamente erano mafiose.
«Infatti Giovanni Spampinato aveva fatto molte inchieste su quelle illegalità diffuse, sul terrorismo di estrema destra, sulla mafia, sui traffici. Forse il delitto non è di quelli mafiosi “classici”, ma è il contesto, di impunità e complicità a vari livelli, a essere mafioso».
In cosa consistevano queste complicità?
«In sede giudiziaria non furono presi in considerazione alcuni testimoni che avrebbero svelato che quella notte, sul luogo del delitto, non c’era solo Campria. Non si tratta ormai di arrivare alla verità giudiziaria, ma perlomeno a quella storica. Io ho parlato di omissioni nell’inchiesta e per questo c’è stato un accanimento: presentavano tre querele in tre tribunali sullo stesso articolo, più una quarta civile. La rimozione della vicenda Spampinato è partita subito, appena dopo il processo a Campria, che peraltro, tra sconti vari e semi-infermità, ha fatto 5-6 anni di carcere. E parliamo degli anni in cui il carcere di Ragusa era soprannominato “Hotel Bristol”. Non è un caso se molti boss mafiosi premevano per farsi portare lì».
La provincia di Ragusa è stata sempre considerata “babba”, senza mafia. Ma la storia di Spampinato sembrerebbe smentire questa convinzione.
«La mafia non è solo quella militare, che pure qui c’è stata. Io temevo la mafia, ma non conoscevo i metodi e l’aggressività dei poteri forti. Tutti si sentono intimiditi e ricattati, e questo è tipico di un contesto mafioso».
Che cosa significa oggi ricordare Giovanni Spampinato?
«Io ho cominciato a occuparmi della sua storia dieci anni fa, nel trentennale della morte, grazie agli articoli che aveva raccolto Etrio Fidora, ex direttore de L’Ora. C’era questo senso evidente di rimozione, non se ne doveva parlare. Qui siamo nel “cono d’ombra” di Cosa Nostra, dove tutto deve restare nascosto, segreto, coperto. Tra Vittoria e Gela ci sono state stragi di mafia persino più pesanti che a Palermo: nonostante questo, bisogna rimuovere completamente. Ancora oggi, come ai tempi di Giovanni, chi fa inchieste e analisi di un certo profilo, tocca quei pericolosi fili dell’alta tensione. E la vicenda della sala stampa del comune di Ragusa, inaugurata nel 1995 e intitolata a Giovanni, ma chiusa per lungo tempo e riaperta pochi mesi fa, dimostra che la memoria di Spampinato è pesante e dà ancora fastidio».
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