«La colpa della morte di Giovanni Lo Porto è dei terroristi». Penso e ripenso da due giorni a questa cosa. La notizia dell'uccisione del cooperante palermitano in Pakistan, durante un'azione armata degli Stati Uniti, mi ha provocato rabbia e disgusto. Senza anti-americanismi di maniera. Mi ha fatto rabbia sapere che un nostro connazionale, e pure uno dei migliori, rapito tre anni fa da al Qaeda, sia morto per colpa di un bombardamento alla cieca, per una prova di forza fine a se stessa, un atto di machismo, l'idea che si debba parlare solo il linguaggio delle armi. Rabbia e disgusto, perché la notizia l'abbiamo saputa, noi italiani, in ritardo e con la solita impotenza: il presidente americano Obama ce l'ha comunicato a fatto avvenuto, eravamo all'oscuro di tutto. Come quando nel 2012 Franco Lamolinara, ostaggio in Nigeria, morì in un blitz sproporzionato degli incursori britannici: l'Italia non ne sapeva nulla. E non parliamo di Nicola Calipari...
Ma, ripeto, lasciamo da parte ogni facile e fuorviante sentimento anti-americano. Il problema è un altro, o meglio sono tanti altri i problemi. Giovanni "Giancarlo" Lo Porto non era un volontario, non era uno sprovveduto, non era un avventuriero. Si mettano il cuore in pace quelli che hanno questa opinione di chi fa cooperazione internazionale e non indossa una divisa. Lo Porto è stato ammazzato da uomo inerme, perché il suo lavoro non prevede armi o uso della forza, nemmeno quella "istituzionalizzata" dietro il paravento dell'uniforme.
E qui arriviamo al punto di partenza. Quel virgolettato ("la colpa è di al Qaeda") è del presidente del Consiglio Matteo Renzi. Che si è accontentato naturalmente delle condoglianze americane di rito, dell'ammissione di responsabilità di Obama ed evidentemente dell'ineluttabilità della morte di un italiano perbene in un teatro di guerra, violenza e povertà. Lo stesso premier, però, ha ritenuto di dover sottolineare che la vera colpa ce l'hanno i terroristi che tenevano in ostaggio Giancarlo Lo Porto. Un sofisma totalmente inutile, del quale suppongo che la famiglia del cooperante possa fare benissimo a meno. Alla madre, che dignitosamente chiede di essere lasciata in pace con il suo dolore, non cambia nulla, immagino: suo figlio era sotto sequestro, lei è perfettamente consapevole delle colpe dei qaedisti.
Io mi faccio solo una domanda: Renzi intende dire che Giancarlo è da considerare "vittima del terrorismo", dunque destinatario dei benefici di legge e pensionistici? Domanda provocatoria, cinica e maliziosa, volutamente. Ma il rispetto dovuto a Lo Porto impone chiarezza, non parole gettate al vento come un drone, magari nel vuoto di un'aula parlamentare sorda, cieca, ipocrita.
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sabato 25 aprile 2015
venerdì 9 gennaio 2015
Ìu sugnu Charlie
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#JeSuisCharlie |
Ecco perché è semplicemente urticante l'ipocrisia e l'incoerenza di molti italiani (anche miei colleghi...) che adesso gridano alla libertà di stampa-espressione-satira, dopo anni e anni di censure striscianti e prese di posizione tranchant contro giornalismo e dintorni. Ma la mia non è una inutile e risibile difesa d'ufficio della categoria, spesso indifendibile. Dio – uno qualsiasi – ce ne scampi e liberi. Mi fa però schifo la solidarietà pelosa agli irriverenti francesi da parte di chi non ha esitato altre volte a buttarla sulla vecchia regola del "se l'è andata a cercare". Magari lo pensano ancora, ma ora non lo dicono. Quello che conta, per loro, è che Charlie pubblicasse vignette che sbeffeggiano l'Islam. Di quelle sul cattolicesimo, sull'ebraismo e soprattutto di quelle che sfottono la destra reazionaria e xenofoba, invece non parlano. D'altra parte, per i latini la satira era la satura lanx, il vassoio ricolmo di primizie offerto agli dèi. Dèi, al plurale.

La libertà, anche quella di sfottere, fa naturalmente paura al potere, peggio ancora a quei poteri informali e fondati sulla cieca obbedienza e sul terrore. Eppure immagino che anche Peppino, per qualche improvvisato paladino della libertà di satira di inizio 2015, potrebbe essersela "andata a cercare". Ecco, io da certi interpreti del cortocircuito mediatico e ideologico non accetterei lezioni né consigli né insegnamenti. Con una sola eccezione. Ormai non fanno altro che ripetere "abbiamo il coraggio di ripubblicare anche in Italia le vignette di Charlie Hebdo". Bene, allora beccatevi questa. Ottobre 2013. Pour ne pas oublier. Jamais.
giovedì 15 dicembre 2011
Cronaca nerissima
Ora, nel rapporto del Cpj ci sono pure alcuni giornalisti italiani. Ci sono giustamente Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Maria Grazia Cutuli, Enzo Baldoni. Ce ne sono anche di meno noti, freelance ma non solo. Tutti morti in terre devastate da guerre e terrorismo: Iraq, Afghanistan, Somalia, Balcani. Cronisti uccisi proprio mentre svolgevano il loro lavoro, morti proprio perché giornalisti.
Ma qualcosa non mi quadra. Non è che per essere conteggiati si debba per forza morire all'estero, vittime di terroristi sanguinari o guerriglieri senza scrupoli? Io non so se il Comitato, attivo dal 1981, abbia mai monitorato i casi di giornalisti morti anche prima del '92. Perché altrimenti l'Italia avrebbe un discreto campionario di cronisti morti da offrire alle statistiche del Cpj. Ma in realtà c'è almeno un caso, successivo all'anno da cui inizia l'analisi, che avrebbero dovuto segnare nelle loro tabelle precise e dettagliate. Se sono stati conteggiati giornalisti uccisi da criminali e terroristi in Francia o Spagna, mi piacerebbe capire perché chi è stato ammazzato dalla mafia non "merita" di far parte di questa lista.
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