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venerdì 22 dicembre 2023

Alla Corte di Barbera



«Mi hanno chiamato in tanti per farmi i complimenti. Anche il mio storico barbiere qui a Bologna. Già quando diventai giudice costituzionale disse agli altri clienti: "Barbera è talmente bravo che sono sicuro che diventerà giudice della Corte dei Conti..."». Augusto Barbera ride mentre racconta le reazioni alla sua nomina – all’unanimità – a presidente della Corte Costituzionale. Lo fa nel suo studio in pienissimo centro a Bologna, rispondendo alle domande di Agnese Pini, direttrice di Quotidiano Nazionale, nella prima intervista rilasciata dopo la nomina a quinta carica dello Stato.
Ottantacinque anni, siciliano, giudice costituzionale dal 2015, Barbera ci accoglie in uno studio pieno di libri, riviste, pubblicazioni straniere, ma anche oggetti che rivelano curiosità intellettuale e passioni oltre il diritto. Come l’interesse per la medicina («da autodidatta: sono patofobo»). O come la collezione di statuine di Sant’Antonio da Padova davanti ai volumi della rivista Giurisprudenza Costituzionale. «Perché Sant’Antonio? Perché io mi chiamo Augusto Antonio: Augusto lo scelse mio padre, sa, erano gli anni in cui l’Italia pensava all’impero... Antonio invece lo volle mia madre, devotissima».
Che presidente sarà Augusto Barbera? In un clima di contrapposizioni, non si rischia che la Corte venga tirata per la giacchetta, per arruolarvi pro o contro governo?

«Una cosa è certa: se dovesse verificarsi uno scenario del genere deluderò gli uni e gli altri. Da quando sono stato eletto giudice costituzionale, mi impongo una regola: lasciare fuori dal portone della Corte il proprio passato, che nel mio caso appartiene alla politica, visto che sono stato in Parlamento e, per un breve periodo, anche ministro nel governo Ciampi. Tutto questo, compreso il mio ruolo di promotore dei referendum elettorali negli anni Novanta, appartiene a un’altra vita».
Ecco, un’altra vita. Partiamo dall’inizio: quando è arrivato a Bologna?
«In Emilia nel 1970. Prima ero libero docente a Catania, dopo il matrimonio io e mia moglie siamo andati a vivere a Ferrara, dove presi la cattedra che aveva lasciato Leopoldo Elia. Un anno dopo ci siamo trasferiti a Bologna. Per quattro anni sono stato responsabile della commissione giuridica della neonata Regione Emilia-Romagna».
Poi c’è stata la politica.
«Nel 1976 sono diventato parlamentare, con il Pci e il Pds, per cinque legislature, alcune “mini“. L’ultima, per esempio, è durata due anni, dal 1992 al ’94».
Ed è stato ministro...
«...per poco. Io ero stato tra i protagonisti dei referendum elettorali. Dopo il 18 aprile 1993, con la vittoria del maggioritario, si formò il governo Ciampi e io divenni ministro per i Rapporti con il Parlamento. Poi ci siamo dimessi dopo la mancata autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi. C’era la sollevazione popolare – ricordate le monetine all’hotel Raphaël? – e Achille Occhetto, leader del Pds, decise che quel Parlamento non poteva restare in piedi e bisognava andare a nuove elezioni. Uscimmo dal governo, ma fu un errore».
Lasciaste il governo per una questione di principio?
«Quella nostra assurda uscita dal governo avvenne per una scelta populista, perché le piazze protestavano. Devo dire che una certa dose di populismo l’avevamo portata anche noi con la pur sacrosanta riforma del sistema elettorale in senso maggioritario, che portò, tra l’altro, all’elezione diretta dei sindaci. Però forse si era esagerato: io infatti non partecipai al referendum sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti».
Tangentopoli è stato forse l’ultimo momento di frattura dirompente in Italia. Poi ci sono stati grandi eventi internazionali. Che cosa hanno lasciato quegli anni?
«C’è la vulgata che i partiti siano crollati in quell’occasione, per colpa del movimento referendario. Io invece ho sempre capovolto questa vulgata: noi potemmo portare avanti quelle iniziative proprio perché i partiti erano già deboli. Il Paese non accettava più che anche per la più modesta delle opere pubbliche si dovesse pagare la tangente...».
Senza entrare nel merito dei partiti, qual è lo stato della democrazia, anche in Europa?

«Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo una crisi della intermediazione, che colpisce dai partiti alla stampa. Adesso prevalgono i social e la stessa tv va verso il basso. I talk show ormai sono costruiti come una sceneggiata, sempre con gli stessi personaggi ai quali vengono affidati determinati ruoli come nella commedia dell’arte».
E il rapporto tra il cittadino e la giustizia?
«Ai cittadini dà fastidio dover aspettare anni per la giustizia civile, invece i gruppi dirigenti sentono di più il problema dell’azione penale».
Adesso siamo al momento in cui si torna a parlare di riforme, forse più che in passato.

«Io ho iniziato a occuparmi di riforme dagli anni Ottanta, ma tutto ciò appartiene, appunto. a un’altra vita. Ora non posso continuare a occuparmene ma questo non significa che la Corte sia estranea ai processi di revisione costituzionale. Alcuni paletti li abbiamo già: la Corte può valutare le riforme della Costituzione se in contrasto con i principi fondamentali. Ma i progetti fin qui presentati non hanno mai toccato questi supremi principi. Altri paletti, desumibili dalle sentenze della Corte, sono legati al sistema elettorale: è legittimo prevedere un premio di maggioranza ma con una soglia ben definita; se si vuole eliminare il voto di preferenza bisogna ricorrere al collegio uninominale o a circoscrizioni piccole; poi c’è il tema delle soglie di sbarramento. Ma il paletto più importante è rappresentato dalle procedure previste all’articolo 138 della Costituzione: la maggioranza dei due terzi per fare le riforme costituzionali e l’eventuale referendum se ciò non avvenisse».
I due terzi rappresentano un consenso ampio...
«Sarebbe meglio, ma è legittima anche la strada del referendum».
Vede un rischio di lesione dell’indipendenza della Corte?
«Un certo costituzionalismo ansiogeno ha iniziato a dire “ora tenteranno di occupare la Consulta“. Ma ciò non è possibile: per eleggere i cinque giudici di nomina parlamentare servono numeri che l’attuale maggioranza da sola non ha. Sono inevitabili, dunque, le convergenze politiche».
E per quanto riguarda la riforma principale, il premierato?
«Sul punto non rispondo. Posso dire, tuttavia, che il presidente del Consiglio italiano non ha i poteri che hanno altri primi ministri, rafforzati, in alcuni Paesi, dal voto a data certa del Parlamento sui provvedimenti presentati dal governo. E questo, da noi, porta ad alcune anomalie. Per esempio, i decreti legge sono una singolarità italiana ma anche i maxi emendamenti, su cui viene posta la fiducia, che vengono utilizzati da tutti i governi. Avere un potere politico forte non è un male, purché sia legittimato».
A proposito di poteri forti, l’Europa deve farsi Stato?
«Non è facile, dubito che si possa farlo nel giro di qualche anno o decennio, però è un’evoluzione necessaria se si vuole che possa competere con la Cina o con l’India o con gli Stati Uniti. Da costituzionalista, posso dire che nella storia uno Stato si ha quando c’è un’unica moneta, e questa ce l’abbiamo, ma servono anche un’unica politica fiscale, estera e di difesa. In realtà, manca anche una lingua unica, non è banale. Però sull’energia qualcosa è stata fatta».
Che ruolo può avere la Corte in un periodo di crisi della politica e dei corpi intermedi?

«Io direi piuttosto che effetti può avere questa situazione sul ruolo della Corte. Il primo è che noi abbiamo tentato delle strade per coinvolgere il Parlamento, come sul fine vita, senza però riuscire a ottenere risultati. Come sta avvenendo sempre sul fine vita, se non interviene il Parlamento sono costretti a muoversi tribunali e regioni. Se ci sono dei vuoti, qualcuno va a occuparli. La Corte è nata per limitare il potere, ma anche per garantire i diritti. E come dice la stessa Costituzione all’articolo 3, spetta alla politica rimuovere gli ostacoli. Adesso sono però i poteri privati, come le multinazionali o i colossi del web che possiedono i nostri dati, a limitare i diritti. Concetti sacrosanti, questi, ribaditi da ultimo dal presidente Mattarella».
Il tema dei diritti civili è uno di quelli su cui la Consulta è intervenuta maggiormente...

«Un altro capitolo sono le unioni civili e il riconoscimento dei figli di coppie dello stesso sesso. Per esempio nel caso della gestazione per altri, che resta una pratica vietata, la Corte si è espressa in maniera inequivocabile: l’interesse del minore è sempre prioritario. Anche in questo caso c’è chi, come alcuni sindaci, riempie i vuoti, ma non sulla base di una legge. Che va fatta».
Senta, non possiamo non chiederle... chi sono le «donne impazienti»?
«Sono sinceramente dispiaciuto per l’equivoco che si è ingenerato e per questo invito tutti ad andare a riascoltare per intero il filo del mio ragionamento. Non mi sognerei mai di pensare che l’impazienza di reclamare un diritto possa in qualche modo avere un’accezione negativa. Al contrario, le donne hanno tutto il diritto di essere impazienti».
E sul caso sollevato dall’ex giudice Nicolò Zanon, il conflitto di attribuzioni sulle intercettazioni dell’onorevole Cosimo Maria Ferri?

«Prendiamo atto che il professor Zanon ha chiarito “di non aver mai parlato di ‘pressioni’ sulla Corte Costituzionale” e si è rammaricato che le sue parole possano aver ingenerato “ricostruzioni che danneggiano l’istituzione”. La Corte ha ricordato che la segretezza dei suoi lavori è posta a garanzia della piena libertà di confronto tra i giudici e dell’autonomia e indipendenza. E ha anche ribadito che tutte le sue sentenze possono essere criticate. Potrei aggiungere che, forse, si può pure discutere, nelle forme dovute, dell’introduzione dell’opinione dissenziente legata alle decisioni della Corte: ma certamente, senza di essa, l’opinione in dissenso non può essere manifestata a posteriori…».


[intervista pubblicata sul Quotidiano Nazionale]

lunedì 5 dicembre 2016

Il residente della Repubblica

Sergio Mattarella è stato eletto presidente della Repubblica il 3 febbraio 2015, poco meno di due anni fa. Sergio Mattarella è stato deputato a Roma dal 12 luglio 1983 al 28 aprile 2008, poco meno di 25 anni. Sergio Mattarella ha avuto nella sua carriera sei incarichi di governo. Sergio Mattarella è stato giudice costituzionale per tre anni e mezzo.
Che invidia... da più di 30 anni vive a Roma. E ora fa un mestiere certamente prestigioso!
Sergio Mattarella nel suo seggio elettorale a Palermo
Ma poi, in pieno svolgimento del referendum costituzionale, guardo il Tgr Sicilia delle 14 e tra le notizie d'apertura spicca: "il presidente Mattarella ha votato a Palermo, nella scuola Giuseppe Piazzi, vicino a casa sua in via della Libertà 66" (dove la mafia uccise il fratello Piersanti). Cosa??? Il presidente della Repubblica, carriera trentennale nella Capitale, è ancora residente in Sicilia?
Sergio Mattarella è ufficialmente il mio mito mite. Ancora adesso, nell'incertezza post referendum (e la Sicilia, en passant, è stata con la Sardegna la regione più decisa sul No: oltre il 70%) che riguarderà soprattutto lo stesso Mattarella, il composto e discreto giurista palermitano mi suscita un moto di ammirazione, stupore, forse persino tenerezza.
Mattarella, insomma, è un fuorisede... Anche io sono rientrato in Sicilia per votare, anche io, dopo 14 anni di permanenza fuori dalla mia terra girovagando per il Nord Italia, ho per ora mantenuto la residenza qui. Ma il Presidente no, non me l'aspettavo proprio. Ero troppo abituato all'idea di Napolitano residente superstar dell'esclusivo rione Monti. E pure Berlusconi nel 2013 aveva preso la residenza a Roma, tanto per dire.
Eccoli i paradossi dell'Italia. Ai fuorisede, siano studenti o lavoratori (io sono stato entrambe le cose), non è permesso votare fuori dal loro comune di residenza. E sono tanti. Ricordo ancora perfettamente il Nichi Express del 2005 e il Rita Express del 2006: ero a Bologna e tantissimi giovani partirono così verso la Puglia e la Sicilia, con treni a tariffe speciali, per poter esercitare il loro diritto di voto nei paesi d'origine. Nichi era Vendola, Rita era Borsellino, per correttezza.
E poi? Fuorisede in Italia e all'estero, compresi gli Erasmus, non residenti in un altro Stato ma lì solo temporaneamente, costretti a spendere per un sacrosanto diritto di partecipazione. Esiste l'escamotage, ormai lo sanno tutti, è legale, non c'è nulla di male: fare richiesta come rappresentanti di lista, in caso di consultazioni come i referendum. Io l'ho fatto due volte, 2006 e 2011, Ravenna e Milano. Ma non me lo sarei visto mai Sergio Mattarella in un seggio romano con la spilletta di un comitato del Sì o del No...
Però almeno si è fatto un weekend a casa, in famiglia, come un vero fuorisede del Sud. Prima di tornare al lavoro. E che lavoro...

sabato 12 dicembre 2015

Felice Natività

Alla Biennale di Venezia del 2013, l'artista vietnamita Danh Vo presentò un'installazione in cui, tra le altre cose, c'erano lo "scheletro" della chiesa cattolica di Hoang Ly, risalente al periodo coloniale, e di fronte una grande cornice in legno (230 x 197 x 3). Ma non era un telaio qualsiasi: aveva ancora microscopici frammenti di tela, fino al 1969 aveva ospitato la Natività con i santi Lorenzo e Francesco d'Assisi, opera di Caravaggio conservata nell'Oratorio di San Lorenzo a Palermo. Fino al 1969, però.
Nella notte tra il 17 e il 18 ottobre di quell'anno, infatti, il capolavoro di Caravaggio fu rubato. Pare dalla mafia, che ammazza anche arte e cultura, come l'Isis: se ne è parlato in tanti processi, addirittura si diceva che venisse esposto nei summit con Riina, presunta arma di ricatto contro Andreotti. Ancora oggi è tra i dieci quadri più "ricercati" al mondo; ha un valore di mercato superiore ai 20 milioni di dollari. L'episodio fornì a Sciascia lo spunto per il suo ultimo racconto, Una storia semplice.
Danh Vo dunque ne espose il telaio vuoto, grido d'allarme e di dolore, ma anche un potente richiamo al dovere della memoria.
Dopo 46 anni, la Natività palermitana torna (purtroppo solo virtualmente) al suo posto. Lo studio Factum Arte di Madrid ha creato infatti un clone, un Caravaggio 2.0 che replica fedelmente l'opera rubata. Punto di partenza una diapositiva a colori del '57. Il progetto è di Sky. La sostituzione virtuale non basta, chiaro, ma almeno prova a restituire sensazioni ed emozioni che la mafia ha calpestato. Sicuramente un'operazione simbolica. C'erano anche il presidente Mattarella e il neo vescovo Corrado Lorefice, alla prima uscita istituzionale.
Il quadro di Michelangelo Merisi riproduceva il tema sacro per eccellenza ma raffigurando personaggi ordinari, poveri, emarginati, spontanei. Evocazione di una Chiesa diversa e popolare. Un messaggio potentemente antimafia...

lunedì 20 luglio 2015

La recita del Rosario

Io un abbraccio come quello di Sergio Mattarella e Manfredi Borsellino non ricordo di averlo visto altre volte. Persino il presidente della Repubblica, così schivo e riservato, è andato fuori dal protocollo e ha espresso con naturalezza ed emozione l'affetto per il figlio di Paolo. E questo naturalmente fa più sensazione perché è successo nei giorni dello scandalo e della rabbia per la presunta intercettazione tra il (quasi ex?) presidente della Regione Crocetta e il suo medico-amico Tutino, con le ormai note parole oscene nei confronti di Lucia Borsellino. Forse sarà il solito teatrino alla siciliana, forse no. Certo è che quell'abbraccio sincero e commosso, davanti a sguardi spiazzati, dice più di tante altre parole. Considerando peraltro che le parole di Manfredi erano state dure.
Io mi sono dato un ordine, un obbligo, un compito: ricordare ogni anno, nel mio contesto pubblico molto piccolo, quelle due terribili date del 1992, il 23 maggio di Capaci e il 19 luglio di via D'Amelio. A volte preferirei non farlo, perché non mi pare di avere nulla di così importante da dire. Quello che conta almeno è saperlo, conservare come monito il ricordo dell'estate più calda della storia siciliana. A volte però sarebbe meglio il silenzio, vero, non interrotto da ipocriti applausi di alleggerimento della coscienza. Il silenzio che qualcuno dovrebbe infine consigliare sul serio a Crocetta: a tacere davanti agli insulti di Tutino a Lucia e poi rompere il silenzio alle parole incontestabili di Manfredi, non mi sembra si faccia una gran figura. Senza bisogno di tirare sempre in ballo l'anti-antimafia e l'omofobia.
Ecco, su una cosa taccio invece io, e l'ho fatto anche al lavoro, forse per lapsus, o per scelta, o per ragioni di spazio. Nell'articolo che ho scritto sul Quotidiano Nazionale, ho omesso questa frase di Crocetta: «Tutto accetterò tranne che morire come un pezzo di merda in un letto». Non la capisco, davvero. Il silenzio non è solo omertà. A volte è una splendida opportunità.

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venerdì 30 gennaio 2015

A colpi di Mattarellum

[Vabbè, alla fine né Anna FinocchiaroPietro Grasso sono diventati presidenti della Repubblica... Ma tocca lo stesso, per la prima volta nella storia, a un siciliano. Sergio Mattarella.
Ecco il mio ritratto del capo dello Stato, pubblicato sul Quotidiano Nazionale]

«In confronto a Sergio Mattarella, Arnaldo Forlani era un movimentista». E se a dirlo è Ciriaco De Mita, che di Mattarella è stato lo sponsor politico in quel groviglio di correnti che era la Dc degli anni Ottanta, allora c’è da credergli. Mattarella è schivo, sobrio, forse persino gelido: «Mostrate allegria!», scherzava qualche tempo fa l’enigmista Stefano Bartezzaghi anagrammando il suo nome. Insomma, Sergio Mattarella da Palermo, classe 1941 fu Bernardo, è così. Calmo, pacato e rigoroso (o rigido?). A tal punto che il suo grido di battaglia nella campagna elettorale per le turbolente elezioni del 2001, quelle del trionfo berlusconiano, era «molto è stato fatto, ma molto resta da fare». Lui comunque fu eletto. In un collegio ‘straniero’, in Trentino. «Non possiamo venire a sapere dal Giornale di Sicilia che uno si candida qui», insorsero a Trento.
«La mia azione politica è sempre e comunque provvisoria», diceva l’uomo che ha dato, suo malgrado, il nome a una legge elettorale, il Mattarellum. Il politologo Sartori voleva essere ironico con quel latino. Ma alla politica, a un certo punto, Sergio ha dovuto dedicare la sua vita. Il 6 gennaio 1980 gli muore tra le braccia il fratello Piersanti, presidente della Regione Sicilia. Ucciso dalla mafia. È un legame forte, quello di ‘Sergiuzzu’ e Piersanti: «Ci confidavamo su tutto». Dopo la strage di via Libertà, De Mita lo manda a Palermo a rinnovare quella Dc siciliana che con la mafia aveva convissuto per lungo tempo. Persino papà Bernardo, dominus della politica isolana, dieci volte ministro, era stato molto chiacchierato: sempre assolto da ogni accusa, comunque (avvocato era l’onorevole Giovanni Leone, futuro capo dello Stato, per la cronaca). Piersanti era morto perché voleva rompere quei legami. Anche se fu lui l’artefice della prima elezione di don Vito Ciancimino a sindaco di Palermo, nel 1970. E l’opera di rinnovamento di Sergio parte proprio dal Comune: Leoluca Orlando, l’uomo della ‘primavera palermitana’, è una sua creatura.
Poi il salto romano: in Parlamento dal 1983 al 2008, sette legislature ininterrotte. Supera indenne anche la tempesta di Tangentopoli, trasformando la Dc nel Partito popolare. E sarà ancora lui a battezzare la nascente Margherita e a firmare il manifesto che dà vita al Pd. Venticinque anni di Parlamento, ministro in governi diversissimi, da Andreotti a D’Alema. Con il Divo Giulio si occupa di istruzione, almeno fino al 1990, quando – ed è questo il primo vero sussulto, a quasi 50 anni – si dimette per protesta contro la fiducia sulla legge Mammì che avrebbe sanato la situazione di illegalità delle tv di Berlusconi.
Prima di dimettersi aveva avuto il tempo di appoggiare, da buon cattolico, la battaglia del Vaticano contro il tour di Madonna: «Un’offesa al buongusto». Ma il conto aperto ce l’ha proprio con il Cavaliere e il centrodestra. Quando Buttiglione critica pesantemente gli ex democristiani che vanno a sinistra, lui risponde con inedita ironia: «El general golpista Roquito Butillone...». E fu «un incubo irrazionale» vedere Forza Italia nel Ppe insieme a lui.
Con il líder máximo D’Alema (di cui è stato anche vicepremier) andrà invece alla Difesa. Abolisce la leva obbligatoria e nel 1999 aderisce convintamente alla guerra in Kosovo. Si guadagna la stima degli americani. Ma il suo biglietto da visita internazionale si ferma qui. Il curriculum nazionale invece è ricco: «la poltrona più bella è quella della Corte costituzionale», diceva poco tempo fa. Per arrivare nel 2011 alla Consulta fu decisivo il voto di una giovane neo mamma, Marianna Madia. Bernardo Giorgio, figlio di Sergio e allievo dell’altro ‘quirinabile’ Sabino Cassese, oggi è uomo di punta dello staff del ministro Madia.

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