Quest'anno il Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, insieme all'Associazione Ilaria Alpi, ha dedicato proprio a Rostagno il premio "Una storia ancora da raccontare". Ho partecipato. Ho scritto un pezzo sulla storia di quello strano attivista-sociologo-giornalista. Ho giocato un po' con le parole, a dirla tutta. Sono arrivato secondo.
Un racconto di contrasti, tra il bianco e nero e i colori, tra la luce e il lutto, tra la vita e la morte. Eccolo (è anche qui).
La storia di Mauro Rostagno è una storia di colori. Da raccontare un po’ a colori, un po’ in bianco e nero. È a colori il Rostagno “arancione”, quello che abbraccia le filosofie orientali e il pensiero di Osho. È arancione il Mauro che fonda la comunità Saman. È bianco e nero Mauro, quando il boss di Trapani Mariano Agate lo minaccia pubblicamente: «Diteci a chiddu ca varva e vistutu di bianco ca finissi di riri minchiati». La varva, la barba è nera, e Mauro è vestito di bianco. Quasi un’icona: un uomo venuto da lontano a vestire il bianco dell’onestà e della verità in una terra che troppo spesso tra la luce e il lutto, per dirla con Bufalino, sceglie il colore oscuro della morte e del dolore.
I colori, la luce della Sicilia, i simboli, non sono inutili nella storia e nella vita di Mauro Rostagno. Una storia e una vita che diventano siciliane trent’anni fa, ma che in fondo sono siciliane da sempre. Mauro Rostagno non è nato in Sicilia, come Danilo Dolci o Mauro De Mauro. Ma è siciliano nel cuore, “trapanese per scelta”, scelta insolita se nasci a Torino. È siciliana la sua vita, con tutte le complessità che forse solo una vita siciliana può vantare. Sociologo antimafia, come Dolci. Giornalista antimafia, come De Mauro. E ucciso dalla mafia, come De Mauro.
Tutto quello che Rostagno ha fatto prima di diventare “quello con la barba e vestito di bianco” è storia. La “s” è minuscola o maiuscola a piacimento. È la singola storia di un uomo del suo tempo e nel suo tempo, piccola e grande insieme, dunque. La politica, i movimenti, la militanza, la cultura alternativa, la contestazione, il Sessantotto, Trento e la sociologia, Lotta Continua: il Mauro Rostagno giovane è in fondo la biografia di un’intera nazione, di un’intera generazione. La sua vita è il racconto di una società che cambia, anche tra provocazioni, controversie e tensioni. Quella di Rostagno è una delle tante storie minuscole che hanno fatto l’altra Storia, quella maiuscola, grande, italiana.
Prima di Saman, la Sicilia è già entrata nella vita di Mauro. Anzi, è Mauro che entra nella vita e nella quotidianità della Sicilia e comincia già nei primi anni Settanta a rivoltare Palermo e l’Isola, all’università e in politica. Ma è chiaro che con Saman tutto cambia. Da centro di meditazione “arancione” a comunità terapeutica per il recupero dei tossicodipendenti, un’isola di serenità in un territorio martoriato, dove il dolore è nascosto sotto quel velo nero che non si può squarciare. Ma Rostagno quel velo l’ha strappato e ha provato a far brillare un po’ di bianco e di luce. Lo ha fatto anche da giornalista. E questo dovrebbe insegnare molto a chi vuole fare quel mestiere: non è eroismo, è semplice ricerca della verità. Come De Mauro prima di lui, Rostagno paga con la vita il suo lavoro, la sua missione, le denunce: muore da siciliano, lui che siciliano lo è diventato per adozione. Adozione reciproca, s’intende.
Mauro Rostagno è morto da siciliano, come quei siciliani che cercano la verità e non si fermano alla faccia delle cose, non si accontentano dei colori superficiali. Una passione, il giornalismo, non tanto un lavoro. Anche un modo per dare una seconda occasione ai ragazzi di Saman. Una terapia civile. Dagli schermi di Radio Tele Cine, la Rtc di Trapani, l’uomo con la tunica bianca e la barba nera usava tanti colori. Colorato era il suo “mestiere della parola”. Il boss Agate si sbagliava: non erano “minchiate”, quella era l’ironia con cui Mauro prendeva in giro i potenti. Faceva paura quel sorriso, la veste bianca e la barba lo rendevano un “pirata” molto temuto dai “ladroni”, Rostagno era un giustiziere buono e onesto.
Aveva solo 46 anni, il “pirata”, quando la mafia lo uccise. La mafia, quella trama nera (nera come il lutto) che ha attraversato la Storia – e le storie – d’Italia e della Sicilia. Una trama fatta di morte, depistaggi, connivenze, collusioni, trattative occulte. Appunto un fenomeno nero, oscuro, che si concede un’incursione a colori solo quando vira sul rosso, sul sangue. Il rosso, un colore acceso ma che diventa drammatico, quando sporca la veste bianca di Mauro Rostagno.
C’hanno provato in molti modi, a trovare moventi alternativi, come se fosse sconveniente ammettere che quel 26 settembre 1988 la vita e i colori vivi di Mauro Rostagno finivano sotto i colpi e la violenza della mafia. Ci sono voluti più di vent’anni prima che nel 2009 il boss Vincenzo Virga fosse arrestato come mandante dell’omicidio del sociologo-giornalista torinese per nascita e trapanese per scelta. Un epilogo a tinte solo un poco più chiare. Intanto si è detto di tutto: hanno tirato in ballo l’omicidio Calabresi, le armi in Somalia, Gladio, persino presunti moventi di droga interni a Saman.
Hanno provato a sviare le indagini, creare dubbi, macchiare la reputazione e il ricordo di Mauro Rostagno. Che era vestito di bianco, aveva la barba nera e parlava un linguaggio arcobaleno. Ed è stato macchiato di rosso, colore del sangue e della vergogna, il sangue di Mauro e la vergogna di chi lo ha ucciso e dimenticato. Ma anche il rosso dei melograni in mezzo ai quali riposa, il pirata sorridente che sconfiggeva i ladroni.
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