martedì 9 agosto 2011

Il vecchio che avanza

E poi se la prendono con i "professionisti dell'antimafia"... La lotta alla criminalità organizzata non si fa solo con gli arresti, comunque fondamentali. Il ministero dell'Interno fa pure bene a leggere le liste dei latitanti arrestati e dei successi delle operazioni di polizia e giudiziarie, però – come dicono proprio quei "professionisti" – bisogna anche e soprattutto "aggredire i patrimoni dei mafiosi". D'altra parte, in un paese come l'Italia che ha faticato e fatica troppo ad ammettere persino l'esistenza della mafia (o delle mafie), occorre un corpus legislativo chiaro e netto. Nel 1998 si era finalmente iniziato a pensare a un unico testo di legge che riunisse tutte le normative disorganiche e scoordinate. Leggi e norme che, nella migliore tradizione italiana, erano emanate solo dopo gravi fatti di sangue, in ossequio alla logica dell'emergenza. Nel '98 si era dunque riunita una commissione al ministero della Giustizia, ma il suo lavoro è stato interrotto due anni dopo e solo la settimana scorsa si è arrivati all'approvazione di un cosiddetto codice antimafia.
Cosiddetto perché di critiche questo codice se ne è prese tante, anche prima dell'approvazione. Critiche arrivate non solo da parte della magistratura (conosco l'obiezione, "le solite toghe rosse") o dalle associazioni antimafia, a partire dal Centro Pio La Torre, ma anche da alcuni settori politici. E non si tratta di semplice contrapposizione partitica. L'assessore siciliano all'Economia, Gaetano Armao, attacca il provvedimento e ancora una volta il terreno di scontro è sull'attribuzione delle competenze tra Stato e Regione. Assessore all'Economia, dicevamo, e infatti Armao chiarisce quanto sia importante il piano economico nella lotta alla mafia. Il problema di questo nuovo codice è la sostanziale emarginazione delle regioni e degli altri enti locali nell'assegnazione dei beni confiscati. Il 45% del patrimonio confiscato è in Sicilia e deriva soprattutto dal pizzo, ma il codice prevede che i beni rimangano allo Stato e non siano restituiti alle regioni. Con risvolti paradossali, come nel caso degli assessorati alle Attività produttive e ai Beni culturali, ospitati in immobili confiscati ma per i quali la Regione paga un affitto. La Sicilia lo dice da tempo, il presidente della Conferenza delle Regioni, il governatore dell'Emilia-Romagna Vasco Errani, ha segnalato alle commissioni alle Camere le censure al testo ma senza esito.
Lo Statuto autonomista del 1948, la "costituzione" siciliana, prevede all'articolo 33 (comma 1) che «sono [...] assegnati alla Regione e costituiscono il suo patrimonio, i beni dello Stato oggi esistenti nel territorio della Regione e che non sono della specie di quelli indicati nell'articolo precedente», cioè che non interessino la Difesa e altri servizi di carattere nazionale. Ecco perché Armao annuncia il ricorso alla Corte Costituzionale contro l'illegittimità del codice antimafia.
È, o almeno sembra, tutto fermo al testo bloccato nel 2000. Sembra quasi che la mafia non sia cambiata. Manca per esempio l'ipotesi di autoriciclaggio, per cui non si può incriminare un mafioso che ricicla il suo denaro "sporco", ma solo i suoi complici. Così come non c'è il recepimento della direttiva comunitaria che prevede l’obbligo di confiscare in qualsiasi Paese membro dell’Unione Europea beni derivanti da crimini commesse anche in altri Paesi. Sulla base del principio di reciprocità, tra l'altro, alcuni Stati hanno spesso rifiutato di eseguire nel loro territorio la confisca di beni di organizzazioni mafiose italiane.
Un codice nuovo di zecca, ma nato già vecchio.

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