giovedì 26 settembre 2024

Iddu non c'è

Al Cinema Marconi di Castelvetrano, l’unico della città, per tutta la settimana sarà in programmazione Beetlejuice Beetlejuice, l’ultimo film visionario di Tim Burton. Poi arriverà il seguito di Joker. Il 10 ottobre toccherà al film d’animazione Il robot selvaggio, storia di un robottino naufrago su un’isola remota che deve lottare per la propria sopravvivenza.
Castelvetrano, provincia di Trapani, è la città di Matteo Messina Denaro, il boss arrestato il 16 gennaio 2023 dopo trent’anni di latitanza e morto otto mesi dopo per un cancro. Il padrino non c’è più, ma nella sua città forse c’è ancora traccia di una “memoria“ che inibisce la sopravvivenza. Il 10 ottobre, in tutti i cinema d’Italia non esce solo la storia del robottino Roz, ma soprattutto Iddu - L’ultimo padrino, diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Un film che racconta proprio la latitanza di MMD. Un film che però a Castelvetrano nessuno vedrà.
Il gestore del Marconi, infatti, ha deciso di non farlo proiettare. Lui è Salvatore Vaccarino, già consigliere comunale, e la sua famiglia è da sempre proprietaria del cinema. Il film? «Non mi interessa e non mi riguarda». Il padre era Antonio, ex sindaco di Castelvetrano. Il sindaco di oggi, Giovanni Lentini, dice che farà «opera di convincimento per far cambiare idea e offrire questa possibilità ai cittadini». Il punto è che Vaccarino senior nei primi anni Duemila si faceva chiamare Svetonio e intrattenne uno scambio epistolare con Messina Denaro alias Alessio, uno scambio di pizzini per conto dei servizi che avrebbe dovuto facilitare la cattura del boss. E uno dei personaggi principali di Iddu, Catello Palumbo, è ispirato proprio a Svetonio...
Una fuga di notizie, nel 2006, fece saltare l’operazione. Il padrino scrisse a Vaccarino un’ultima lettera il 15 novembre: «Ha buttato la sua famiglia nell’inferno, la sua illustre persona fa già parte del mio testamento. In mia mancanza qualcuno verrà a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti». Nonostante le minacce, non ci furono ritorsioni e l’ex sindaco poté tornare tranquillo a gestire il suo cinema di paese. Dove almeno Roz è sopravvissuto a Iddu.

[Articolo pubblicato sul Quotidiano Nazionale]

mercoledì 18 settembre 2024

L'era il gran visir de tücc i terun

Immaginate un bambino siciliano di 7 anni. Con i capelli corti e gli occhi a palla. Timido. Ero io. Ma quando avevo sette anni all'improvviso vidi che un'altra faccia siciliana con i capelli corti e gli occhi a palla diventò la più famosa del mondo. Avevo 7 anni nel 1990. La faccia era quella, ovviamente, di Totò Schillaci. La sua faccia l'avevo incrociata qualche volta in tv quando mio nonno guardava le partite del Messina. Ma nelle "notti magiche" del Mondiale del '90 quella faccia era dappertutto. E soprattutto quegli occhi.
Io li conosco quegli occhi, li ho visti mille volte in Sicilia, sono gli occhi di una persona buona. Per questo, non solo per quella fugace estate del sogno e del mito, sono molto triste che Schillaci non ci sia più. Come adesso ripenso con un pizzico di malinconia a quella scena del 16 gennaio 2023 che allora fece sorridere, quando Totò si trovava alla clinica La Maddalena di Palermo, quella dove fu arrestato Matteo Messina Denaro, e disse "sembrava un manicomio, una scena da Far West". Era lì per curarsi dal tumore...
Totò Schillaci era uno di noi, uno comune, venuto fuori dal nulla, che incarnava la proverbiale scalata del piccolo uomo del Sud a colpi di sacrifici, talento, caparbietà, ma anche sentimento e incredulità. Quando era alla Juventus si diceva intimidito di dover giocare tutte le domeniche davanti agli Agnelli. Dimostrava così che avere carattere ed essere umili non sono in contraddizione. Tra l'altro fu lui, indirettamente, a farmi restare per anni con un dubbio: ma perché lui si chiama Totò ed è Salvatore, mentre quell'altro Totò, il Principe napoletano, era Antonio? Differenze territoriali, scoprii. Non dico poi la sorpresa da adulto quando ho scoperto l'esistenza di un pittore del Rinascimento ferrarese noto come Maestro dagli occhi spalancati. Non nego che mi feci una risatina: ma il Maestro dagli occhi spalancati è Totò Schillaci! Addio, artista. Anzi, gran visir de tücc i terun.



venerdì 22 dicembre 2023

Alla Corte di Barbera



«Mi hanno chiamato in tanti per farmi i complimenti. Anche il mio storico barbiere qui a Bologna. Già quando diventai giudice costituzionale disse agli altri clienti: "Barbera è talmente bravo che sono sicuro che diventerà giudice della Corte dei Conti..."». Augusto Barbera ride mentre racconta le reazioni alla sua nomina – all’unanimità – a presidente della Corte Costituzionale. Lo fa nel suo studio in pienissimo centro a Bologna, rispondendo alle domande di Agnese Pini, direttrice di Quotidiano Nazionale, nella prima intervista rilasciata dopo la nomina a quinta carica dello Stato.
Ottantacinque anni, siciliano, giudice costituzionale dal 2015, Barbera ci accoglie in uno studio pieno di libri, riviste, pubblicazioni straniere, ma anche oggetti che rivelano curiosità intellettuale e passioni oltre il diritto. Come l’interesse per la medicina («da autodidatta: sono patofobo»). O come la collezione di statuine di Sant’Antonio da Padova davanti ai volumi della rivista Giurisprudenza Costituzionale. «Perché Sant’Antonio? Perché io mi chiamo Augusto Antonio: Augusto lo scelse mio padre, sa, erano gli anni in cui l’Italia pensava all’impero... Antonio invece lo volle mia madre, devotissima».
Che presidente sarà Augusto Barbera? In un clima di contrapposizioni, non si rischia che la Corte venga tirata per la giacchetta, per arruolarvi pro o contro governo?

«Una cosa è certa: se dovesse verificarsi uno scenario del genere deluderò gli uni e gli altri. Da quando sono stato eletto giudice costituzionale, mi impongo una regola: lasciare fuori dal portone della Corte il proprio passato, che nel mio caso appartiene alla politica, visto che sono stato in Parlamento e, per un breve periodo, anche ministro nel governo Ciampi. Tutto questo, compreso il mio ruolo di promotore dei referendum elettorali negli anni Novanta, appartiene a un’altra vita».
Ecco, un’altra vita. Partiamo dall’inizio: quando è arrivato a Bologna?
«In Emilia nel 1970. Prima ero libero docente a Catania, dopo il matrimonio io e mia moglie siamo andati a vivere a Ferrara, dove presi la cattedra che aveva lasciato Leopoldo Elia. Un anno dopo ci siamo trasferiti a Bologna. Per quattro anni sono stato responsabile della commissione giuridica della neonata Regione Emilia-Romagna».
Poi c’è stata la politica.
«Nel 1976 sono diventato parlamentare, con il Pci e il Pds, per cinque legislature, alcune “mini“. L’ultima, per esempio, è durata due anni, dal 1992 al ’94».
Ed è stato ministro...
«...per poco. Io ero stato tra i protagonisti dei referendum elettorali. Dopo il 18 aprile 1993, con la vittoria del maggioritario, si formò il governo Ciampi e io divenni ministro per i Rapporti con il Parlamento. Poi ci siamo dimessi dopo la mancata autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi. C’era la sollevazione popolare – ricordate le monetine all’hotel Raphaël? – e Achille Occhetto, leader del Pds, decise che quel Parlamento non poteva restare in piedi e bisognava andare a nuove elezioni. Uscimmo dal governo, ma fu un errore».
Lasciaste il governo per una questione di principio?
«Quella nostra assurda uscita dal governo avvenne per una scelta populista, perché le piazze protestavano. Devo dire che una certa dose di populismo l’avevamo portata anche noi con la pur sacrosanta riforma del sistema elettorale in senso maggioritario, che portò, tra l’altro, all’elezione diretta dei sindaci. Però forse si era esagerato: io infatti non partecipai al referendum sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti».
Tangentopoli è stato forse l’ultimo momento di frattura dirompente in Italia. Poi ci sono stati grandi eventi internazionali. Che cosa hanno lasciato quegli anni?
«C’è la vulgata che i partiti siano crollati in quell’occasione, per colpa del movimento referendario. Io invece ho sempre capovolto questa vulgata: noi potemmo portare avanti quelle iniziative proprio perché i partiti erano già deboli. Il Paese non accettava più che anche per la più modesta delle opere pubbliche si dovesse pagare la tangente...».
Senza entrare nel merito dei partiti, qual è lo stato della democrazia, anche in Europa?

«Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo una crisi della intermediazione, che colpisce dai partiti alla stampa. Adesso prevalgono i social e la stessa tv va verso il basso. I talk show ormai sono costruiti come una sceneggiata, sempre con gli stessi personaggi ai quali vengono affidati determinati ruoli come nella commedia dell’arte».
E il rapporto tra il cittadino e la giustizia?
«Ai cittadini dà fastidio dover aspettare anni per la giustizia civile, invece i gruppi dirigenti sentono di più il problema dell’azione penale».
Adesso siamo al momento in cui si torna a parlare di riforme, forse più che in passato.

«Io ho iniziato a occuparmi di riforme dagli anni Ottanta, ma tutto ciò appartiene, appunto. a un’altra vita. Ora non posso continuare a occuparmene ma questo non significa che la Corte sia estranea ai processi di revisione costituzionale. Alcuni paletti li abbiamo già: la Corte può valutare le riforme della Costituzione se in contrasto con i principi fondamentali. Ma i progetti fin qui presentati non hanno mai toccato questi supremi principi. Altri paletti, desumibili dalle sentenze della Corte, sono legati al sistema elettorale: è legittimo prevedere un premio di maggioranza ma con una soglia ben definita; se si vuole eliminare il voto di preferenza bisogna ricorrere al collegio uninominale o a circoscrizioni piccole; poi c’è il tema delle soglie di sbarramento. Ma il paletto più importante è rappresentato dalle procedure previste all’articolo 138 della Costituzione: la maggioranza dei due terzi per fare le riforme costituzionali e l’eventuale referendum se ciò non avvenisse».
I due terzi rappresentano un consenso ampio...
«Sarebbe meglio, ma è legittima anche la strada del referendum».
Vede un rischio di lesione dell’indipendenza della Corte?
«Un certo costituzionalismo ansiogeno ha iniziato a dire “ora tenteranno di occupare la Consulta“. Ma ciò non è possibile: per eleggere i cinque giudici di nomina parlamentare servono numeri che l’attuale maggioranza da sola non ha. Sono inevitabili, dunque, le convergenze politiche».
E per quanto riguarda la riforma principale, il premierato?
«Sul punto non rispondo. Posso dire, tuttavia, che il presidente del Consiglio italiano non ha i poteri che hanno altri primi ministri, rafforzati, in alcuni Paesi, dal voto a data certa del Parlamento sui provvedimenti presentati dal governo. E questo, da noi, porta ad alcune anomalie. Per esempio, i decreti legge sono una singolarità italiana ma anche i maxi emendamenti, su cui viene posta la fiducia, che vengono utilizzati da tutti i governi. Avere un potere politico forte non è un male, purché sia legittimato».
A proposito di poteri forti, l’Europa deve farsi Stato?
«Non è facile, dubito che si possa farlo nel giro di qualche anno o decennio, però è un’evoluzione necessaria se si vuole che possa competere con la Cina o con l’India o con gli Stati Uniti. Da costituzionalista, posso dire che nella storia uno Stato si ha quando c’è un’unica moneta, e questa ce l’abbiamo, ma servono anche un’unica politica fiscale, estera e di difesa. In realtà, manca anche una lingua unica, non è banale. Però sull’energia qualcosa è stata fatta».
Che ruolo può avere la Corte in un periodo di crisi della politica e dei corpi intermedi?

«Io direi piuttosto che effetti può avere questa situazione sul ruolo della Corte. Il primo è che noi abbiamo tentato delle strade per coinvolgere il Parlamento, come sul fine vita, senza però riuscire a ottenere risultati. Come sta avvenendo sempre sul fine vita, se non interviene il Parlamento sono costretti a muoversi tribunali e regioni. Se ci sono dei vuoti, qualcuno va a occuparli. La Corte è nata per limitare il potere, ma anche per garantire i diritti. E come dice la stessa Costituzione all’articolo 3, spetta alla politica rimuovere gli ostacoli. Adesso sono però i poteri privati, come le multinazionali o i colossi del web che possiedono i nostri dati, a limitare i diritti. Concetti sacrosanti, questi, ribaditi da ultimo dal presidente Mattarella».
Il tema dei diritti civili è uno di quelli su cui la Consulta è intervenuta maggiormente...

«Un altro capitolo sono le unioni civili e il riconoscimento dei figli di coppie dello stesso sesso. Per esempio nel caso della gestazione per altri, che resta una pratica vietata, la Corte si è espressa in maniera inequivocabile: l’interesse del minore è sempre prioritario. Anche in questo caso c’è chi, come alcuni sindaci, riempie i vuoti, ma non sulla base di una legge. Che va fatta».
Senta, non possiamo non chiederle... chi sono le «donne impazienti»?
«Sono sinceramente dispiaciuto per l’equivoco che si è ingenerato e per questo invito tutti ad andare a riascoltare per intero il filo del mio ragionamento. Non mi sognerei mai di pensare che l’impazienza di reclamare un diritto possa in qualche modo avere un’accezione negativa. Al contrario, le donne hanno tutto il diritto di essere impazienti».
E sul caso sollevato dall’ex giudice Nicolò Zanon, il conflitto di attribuzioni sulle intercettazioni dell’onorevole Cosimo Maria Ferri?

«Prendiamo atto che il professor Zanon ha chiarito “di non aver mai parlato di ‘pressioni’ sulla Corte Costituzionale” e si è rammaricato che le sue parole possano aver ingenerato “ricostruzioni che danneggiano l’istituzione”. La Corte ha ricordato che la segretezza dei suoi lavori è posta a garanzia della piena libertà di confronto tra i giudici e dell’autonomia e indipendenza. E ha anche ribadito che tutte le sue sentenze possono essere criticate. Potrei aggiungere che, forse, si può pure discutere, nelle forme dovute, dell’introduzione dell’opinione dissenziente legata alle decisioni della Corte: ma certamente, senza di essa, l’opinione in dissenso non può essere manifestata a posteriori…».


[intervista pubblicata sul Quotidiano Nazionale]

giovedì 28 settembre 2023

Il vangelo secondo Matteo (Messina Denaro)

“C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, ma solo chi lo vuole davvero riesce a volare, e il tuo volo è stato il più sublime in eterno". Chissà se i parenti di Matteo Messina Denaro useranno per lui le stesse alate parole, tratte dal libro biblico dell’Ecclesiaste, che lui, la madre e le sorelle dedicarono nel 2004 a don Ciccio, il patriarca Francesco. Quel passo così aulico e ispirato, addirittura in latino, fu pubblicato come necrologio sui giornali siciliani per l’anniversario della morte di don Ciccio. Secondo gli investigatori, sarebbe stato lo stesso Matteo a scegliere le frasi da dedicare al padre. Nel 2003 era toccato al Vangelo secondo Matteo, coincidenza non casuale, anche perché il passo in questione era "beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli"... Poi negli anni i necrologi si fecero più sobri e rarefatti, senza scomodare le Scritture.

Matteo Messina Denaro è morto lasciando come ultima volontà il rifiuto di "ogni celebrazione religiosa perché fatta da uomini immondi che vivono nell’odio e nel peccato". Ma, come accade con tutti i boss, le esequie religiose sarebbero state negate comunque dal questore di Trapani. E inoltre pende sempre sui mafiosi la scomunica della Chiesa. MMD riconosceva solo la propria autorità e negava quella della Chiesa quanto quella dello Stato. "Non sono coloro che si proclamano i soldati di Dio a poter decidere e giustiziare il mio corpo esanime. Non saranno questi a rifiutare le mie esequie… Rifiuto tutto ciò perché ritengo che il mio rapporto con la fede è puro, spirituale e autentico, non contaminato e politicizzato. Dio sarà la mia giustizia", scriveva in un pizzino dieci anni fa, quando ancora non aveva scoperto la malattia che l’avrebbe portato alla morte.

Il rapporto tra Messina Denaro e la religione è più controverso di quanto possano far credere i suoi giudizi sprezzanti sulla Chiesa cattolica. Nel 1998 il padre Francesco morì, di morte naturale, in campagna, e il cadavere fu fatto ritrovare sotto un ulivo vestito di tutto punto per il funerale, con in tasca due santini, quello di San Francesco e quello della Madonna della Libera di Partanna. Il prete che celebrò il rito al cimitero di Castelvetrano sentenziò che "la vicenda umana del nostro fratello la sa solo Dio, gli uomini non possono giudicarla". Praticamente lo stesso dogma di Matteo Messina Denaro. Al quale la Chiesa e i preti andavano bene solo se complici o perlomeno spettatori silenti. Come in quei giorni di latitanza con il padre in una sacrestia di Calatafimi a godersi la processione del Santissimo Crocifisso. O come quel sacerdote che gli avrebbe fatto da confessore benché già latitante . E comunque MMD dovrebbe essere tumulato sempre a Castelvetrano, nella cappella gentilizia di famiglia su cui veglia all’ingresso una statua di donna angelicata.

Lo spartiacque, per Messina Denaro e per la mafia siciliana, è il 1993. Cioè proprio quando il boss di Castelvetrano iniziò la latitanza. Lo stesso anno in cui Giovanni Paolo II lanciò il 9 maggio dalla Valle dei Templi di Agrigento il "grido del cuore" che suonava già come scomunica: "Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via, verità e vita, io dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!". Lo stesso anno in cui però, il 15 settembre, il martirio di don Pino Puglisi certificò che anche nella Chiesa la mafia vedeva ormai un nemico. E infatti, secondo Giuseppe Pignatone, ex procuratore di Roma e oggi presidente del Tribunale Vaticano, le stesse stragi romane del luglio 1993 – San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro – "erano anche una sfida alla Chiesa e alla sua capacità di orientare la cultura antimafia del Paese". Matteo Messina Denaro era uno dei mandanti.


[articolo pubblicato sul Quotidiano Nazionale]

sabato 22 aprile 2023

I traditori dell'antimafia

Franco La Torre non aveva ancora 26 anni quando nel 1982 il padre Pio, allora segretario regionale del Pci in Sicilia e fautore della grande rivoluzione antimafia della confisca dei beni, fu ucciso da Cosa Nostra. Oggi di anni ne ha 66 e da quasi trenta porta avanti una battaglia contro il sistema di potere politico-mafioso. Nel 2021 ha pubblicato L’antimafia tradita , in cui denunciava la deriva di un movimento chiuso in se stesso, autoreferenziale, a volte ipocrita. Non vuole commentare il caso di Daniela Lo Verde, preside della scuola “Giovanni Falcone“ allo Zen di Palermo, icona antimafia arrestata per corruzione ("sono dispiaciuto, ma non parlo di indagini in corso, nessuno è colpevole fino all’ultimo grado di giudizio"), eppure non si sottrae all’analisi delle storture di un’antimafia, appunto, tradita.


Pio La Torre fu assassinato a Palermo il 30 aprile 1982

Pio La Torre fu assassinato a Palermo il 30 aprile 1982


La Torre, che cosa è successo all’antimafia?
“A fronte di una ricetta straordinaria, grazie alla legge che porta il nome di mio padre, oggi abbiamo un’antimafia sociale diffusa nel territorio inimmaginabile quarant’anni fa. Da Udine a Mazara del Vallo è pieno di associazioni, comitati, piccoli gruppi che fanno un lavoro straordinario. La questione è la loro fragilità: sono esperienze molecolari, non hanno la possibilità di confrontarsi e spesso producono fenomeni di autoreferenzialità. Della serie: “noi siamo i più bravi del mondo a fare quello che facciamo“. Un limite che si può superare solo con il confronto”.
Confronto e anche controllo...
“Certo. Se ci fossero più occasioni di dialogo tra le varie realtà antimafia, potrebbero emergere anche le cose che non vanno. Ad esempio, se non mi presento a un incontro, alla fine perdo credibilità e gli altri iniziano a farsi venire dei dubbi. Magari scoprendo che era tutto finto”.
Perché c’è così tanta personalizzazione nell’antimafia?
“Perché è un ottimo strumento. Perché ti promuove. Perché è una buona pubblicità. Perché io sindaco, per dire, posso poi appuntarmi al petto la coccarda di aver sostenuto una buona azione. Perché alcuni avvocati creano le associazioni per costituirsi parte civile, e passano per movimenti antimafia: ma è solo il loro lavoro. Perché aiuta a far carriera. Fino ad arrivare alle conseguenze più tragiche, tipo fare il paladino dell’antimafia e poi risultare mafioso: si usa l’antimafia come copertura, e la mafia l’ha capito da tempo”.
Arriviamo allora a quella famosa e tanto discussa definizione, i “professionisti dell’antimafia“ di Leonardo Sciascia... Si finisce sempre lì?
“Le situazioni controverse, gli errori e le esagerazioni vanno sempre condannati, stigmatizzati, senza però buttare via il bambino con l’acqua sporca, perché non sono tutti imbroglioni. Bisogna partire dal presupposto che c’è un’antimafia tradita. In fondo, è come l’antibiotico: da sola non basta, e va aiutata”.
Come si può aiutarla?
“Facendo parlare tra di loro movimenti e attivisti. Le istanze collettive rendono più forte la voce, anche e soprattutto per farsi sentire dalle istituzioni. Ci si lamenta sempre che l’antimafia è assente dall’agenda politica. Ma non sempre la politica è illuminata o sa ascoltare”.
Bisogna saper farsi sentire.
“Sì, ma per farsi sentire si deve alzare la voce. Cantando in coro, per dirla con una metafora”.
Dove sta andando l’antimafia?
“Va avanti. Noi siamo il Paese dell’antimafia, l’unico al mondo. Non siamo più il Paese delle mafie, ormai ce ne sono anche altrove, magari più potenti delle nostre. Ma al di là di questo, sicuramente l’Italia, grazie a strumenti normativi, istituzioni e una coscienza civile diffusa, è il luogo dell’antimafia”.


[intervista pubblicata su Quotidiano Nazionale]