Nei miei giorni da inviato a Campobello di Mazara e Castelvetrano, solo in un caso ammetto di essermi lasciato andare alla retorica. Quando ho parlato dei - e con i - giovani, anzi giovanissimi, di quei paesi. Il giorno in cui sarebbe stato scoperto il secondo bunker di Matteo Messina Denaro a Campobello, la mattina i ragazzi delle scuole del circondario erano scesi in piazza con cartelli e slogan, cosa che le altre generazioni non avevano granché fatto. Ero in giro tra Campobello e le campagne quando poi mi sono spostato a Castelvetrano proprio per parlare con questi adolescenti che avevano voglia di dire la loro e di essere ascoltati. La manifestazione era già terminata ma ho trovato due gruppi di ragazzi ancora in piazza: i 14-15enni di Campobello, freschi studenti del liceo scientifico a Castelvetrano, e i 16-17enni del classico, provenienti anche da altri paesi della provincia (Partanna, Santa Ninfa, Salaparuta).
Tutti sono contenti dell'arresto del boss. Tutti però vogliono risposte su come sia stata possibile questa latitanza così lunga. Tutti chiedono che la loro voce venga finalmente ascoltata e si inizi ora a parlare di futuro. Tutti sottolineano la frattura generazionale tra i "vecchi" che hanno spesso giustificato il boss, facendone addirittura un eroe, e i giovani che non possono accettare questa presunta "normalità" ("Come si fa? Ha ammazzato anche quel povero bambino", dice Stefano riferendosi a Giuseppe Di Matteo). Ma ci sono anche alcune differenze.
Le cose più forti, che costringono a riflettere, me le hanno dette i campobellesi. Dalila, Alice, Marco, Giada, Gabriele e gli altri, tutti concordi nel dire che quando saranno grandi lasceranno il loro paese ("Ormai è rimasto un paese di vecchi", dice Dalila, vecchi con cui non c'è dialogo o confronto); solo uno azzarda "io resterei", ma al condizionale perché ci vogliono le condizioni giuste. E poi il colpo che smantella decenni di retorica dell'antimafia da festa comandata, istituzionale, di maniera: "Sì, a scuola si parla di mafia; abbiamo parlato di Falcone, Borsellino, il generale dalla Chiesa, ma non di Messina Denaro". Magari il loro è un singolo caso (i ragazzi dell'altro gruppo riferiscono al contrario di iniziative antimafia in cui anche l'ex latitante era parte del discorso), magari è una coincidenza, però quella frase è stata per me una deflagrazione. Anche perché sono gli stessi ragazzi a spiegare che nel loro paese il padrino ha avuto decenni di coperture dalle generazioni che hanno approfittato, pure indirettamente, del suo potere criminale. L'omertà è sempre un fatto di interesse, non di disinteresse. Poi, più tardi nella stessa giornata, quei giovanissimi di Campobello li avrei ritrovati davanti alla stradina del bunker, via Maggiore Toselli, incuriositi e ancora con tanta voglia di sapere.
Dai ragazzi del classico ho percepito invece un briciolo di ottimismo in più. Sono stanchi delle etichette di "terra di mafia", addirittura se lo sono sentiti dire da un liceo campano con cui hanno fatto uno scambio ("Chissà che cosa diranno quando verranno a marzo!", commenta una delle ragazze). Si chiamano Angela, Egle, Maria Sole, Stefano, Nadia, Imma. Vogliono risposte, sanno che Messina Denaro ha prosperato grazie al suo "ricatto occupazionale". Nel loro futuro ci sono ancora i loro paesi e la loro provincia, quantomeno la loro Sicilia. "Vogliamo restare e fare qualcosa per la nostra terra", dicono praticamente in coro. Angela cita il suo "mito Falcone" - si illumina in volto - e la mafia come fatto umano che prima o poi dovrà finire ("Si spera non insieme all'essere umano", aggiunge). Lei ha le idee chiare: "Voglio fare il magistrato. Antimafia. Devo restare qui".
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venerdì 27 gennaio 2023
I miei giorni a Campobello / I giovani
martedì 1 giugno 2021
La Brusca realtà
Provo a ragionare brevemente a mente fredda.
Giovanni Brusca, il mafioso autore di almeno 150 omicidi, quello che strangolò e sciolse nell'acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, quello che schiacciò il pulsante della bomba di Capaci, quello che ha aperto la strada al processo sulla trattativa Stato-mafia, quello che ha svelato i retroscena delle stragi del 1993, quello "scannacristiani" che semplicemente chiamavano u' Verru, il porco, quello che dice di aver avuto la svolta dopo aver incontrato Rita Borsellino, quello e tanto altro insomma è un uomo libero.
Fa venire i brividi anche solo pensarlo, figurarsi dirlo.
Per chi come me è cresciuto nel culto (sì, culto) di Giovanni Falcone, la notizia non lascia indifferente. Ma è doloroso parlarne, perché se Brusca è libero dopo 25 anni di carcere, pure con 45 giorni d'anticipo, è "grazie" a Falcone. Se non fosse per la legge sui pentiti e i benefici per chi collabora con la giustizia, Brusca starebbe all'ergastolo - immagino ostativo, peraltro. Falcone, come prima il generale Dalla Chiesa con il terrorismo, aveva capito che per sconfiggere quel "fenomeno umano" (parole sue) che è la mafia bisognava minarla dall'interno. La questione dei pentiti è troppo controversa perché ne possa parlare un dilettante come me. Ma è un dato di fatto che i colpi più duri alla mafia sono stati inferti grazie alla collaborazione di boss spietati, criminali senza scrupoli, scannacristiani e porci.
Non sta a me dire se sia giusto o no che Brusca sia libero. Sono indignato anche io, come tutti. Ma - al netto del garantismo a targhe alterne e delle reazioni sbraitanti della politica che forse scopre la mafia solo quando succedono queste cose - purtroppo, e ripeto purtroppo, con assoluto rispetto parlando, ha ragione Maria Falcone, sorella del mio mito Giovanni, quando parla di "grande dolore" ma sottolinea che "è la legge", legge voluta dal fratello, legge senza la quale lo Stato non avrebbe combattuto con intelligenza la mafia. Questa è l'unica trattativa che ha funzionato.
domenica 13 novembre 2011
Dalla parte (civile) delle vittime
I morti non sono tutti uguali.
Ne sono convinto.
Per molto tempo mi sono chiesto perché in Italia siano poche le vie o piazze dedicate alle vittime di mafia. Intendo dire intitolate in generale proprio alla categoria, chiamiamola così, delle "vittime della mafia", come i caduti in guerra o sul lavoro. Ovvio che mi va benissimo la strada o la piazza dedicata al giudice, al sindacalista, al giornalista, alla singola vittima di Cosa Nostra – o della 'ndrangheta, o della camorra, o...
Anzi, spero che siano sempre di più gli angoli delle città e dei paesi italiani dedicati a chi è stato ucciso dalle mafie. Dico solo che non mi dispiacerebbe un ricordo generale e complessivo per tutte le vittime della criminalità organizzata, perché oltre ai già tanti nomi noti c'è tutto un esercito di martiri sconosciuti. Giusto per non ammazzarli di nuovo con il silenzio.
Qualcosa si muove. A Pianosa, l'isola dell'Arcipelago Toscano che ospitava il carcere di massima sicurezza, strade, piazze e giardini sono stati intitolati alle vittime di mafia. A Palma di Montechiaro, nell'agrigentino, diversi uffici del Comune hanno sede in via Vittime della mafia.
In Calabria c'avevano provato l'anno scorso. A Serra San Bruno (Vibo Valentia) però "via Vittime della mafia" è durata pochissimo, perché per i residenti «il nome scelto è inopportuno e inappropriato». Testuale e sottolineato in neretto. Più opportuno e appropriato invece "traversa I via Catanzaro". Ecco una prima risposta a quella domanda iniziale, forse...
Oppure qualcuno potrebbe pensare che il boss e il capobastone ammazzati dal clan rivale o dalla famiglia e cosca nemica siano da considerare pure loro vittime della mafia. No, questa è una cosa che non posso concepire neanche con un complesso esercizio di astrazione. D'altra parte, sono un laico terreno e non spetta a me parlare di assoluzioni, pentimenti e perdono. Ci sono casi in cui la morte non può essere considerata 'a livella, con buona pace dell'amato Totò.
La settimana scorsa i fratelli Benedetto e Giuseppe Graviano, capimafia della famiglia palermitana di Brancaccio, hanno chiesto di costituirsi parte civile in un processo per mafia. Processo contro il capo dei capi Totò Riina e il pentito Gaetano Grado, imputati per 11 omicidi commessi nella seconda guerra di mafia tra gli anni Settanta e l'inizio del decennio successivo. I Graviano c'entrano perché il 7 gennaio 1982 è stato ucciso il padre Michele, schierato con i corleonesi e ucciso dai perdenti di quella guerra.
Non contento, Giuseppe Graviano ha chiesto pure di potersi costituire parte civile per il figlio minorenne ma su questa istanza il giudice si è riservato di decidere. Il processo è stato rinviato al 16 gennaio 2012.
Tocca ai giudici palermitani decidere. Io rimango interdetto. Come fanno notare giustamente i familiari delle vittime di mafia (quelle vere), i Graviano andranno anche in causa civile e chiederanno un risarcimento? Oppure saranno ammessi al fondo di rotazione 512 "per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso"?
Per la cronaca, gli aspiranti parenti di "vittime di mafia" Graviano sono gli assassini, tra gli altri, di don Pino Puglisi, delle stragi di Firenze e Milano, del piccolo Giuseppe Di Matteo.
Ne sono convinto.
Per molto tempo mi sono chiesto perché in Italia siano poche le vie o piazze dedicate alle vittime di mafia. Intendo dire intitolate in generale proprio alla categoria, chiamiamola così, delle "vittime della mafia", come i caduti in guerra o sul lavoro. Ovvio che mi va benissimo la strada o la piazza dedicata al giudice, al sindacalista, al giornalista, alla singola vittima di Cosa Nostra – o della 'ndrangheta, o della camorra, o...
Anzi, spero che siano sempre di più gli angoli delle città e dei paesi italiani dedicati a chi è stato ucciso dalle mafie. Dico solo che non mi dispiacerebbe un ricordo generale e complessivo per tutte le vittime della criminalità organizzata, perché oltre ai già tanti nomi noti c'è tutto un esercito di martiri sconosciuti. Giusto per non ammazzarli di nuovo con il silenzio.
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Pianosa (foto di Antonella Di Girolamo) |
In Calabria c'avevano provato l'anno scorso. A Serra San Bruno (Vibo Valentia) però "via Vittime della mafia" è durata pochissimo, perché per i residenti «il nome scelto è inopportuno e inappropriato». Testuale e sottolineato in neretto. Più opportuno e appropriato invece "traversa I via Catanzaro". Ecco una prima risposta a quella domanda iniziale, forse...
Oppure qualcuno potrebbe pensare che il boss e il capobastone ammazzati dal clan rivale o dalla famiglia e cosca nemica siano da considerare pure loro vittime della mafia. No, questa è una cosa che non posso concepire neanche con un complesso esercizio di astrazione. D'altra parte, sono un laico terreno e non spetta a me parlare di assoluzioni, pentimenti e perdono. Ci sono casi in cui la morte non può essere considerata 'a livella, con buona pace dell'amato Totò.
La settimana scorsa i fratelli Benedetto e Giuseppe Graviano, capimafia della famiglia palermitana di Brancaccio, hanno chiesto di costituirsi parte civile in un processo per mafia. Processo contro il capo dei capi Totò Riina e il pentito Gaetano Grado, imputati per 11 omicidi commessi nella seconda guerra di mafia tra gli anni Settanta e l'inizio del decennio successivo. I Graviano c'entrano perché il 7 gennaio 1982 è stato ucciso il padre Michele, schierato con i corleonesi e ucciso dai perdenti di quella guerra.
Non contento, Giuseppe Graviano ha chiesto pure di potersi costituire parte civile per il figlio minorenne ma su questa istanza il giudice si è riservato di decidere. Il processo è stato rinviato al 16 gennaio 2012.
Tocca ai giudici palermitani decidere. Io rimango interdetto. Come fanno notare giustamente i familiari delle vittime di mafia (quelle vere), i Graviano andranno anche in causa civile e chiederanno un risarcimento? Oppure saranno ammessi al fondo di rotazione 512 "per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso"?
Per la cronaca, gli aspiranti parenti di "vittime di mafia" Graviano sono gli assassini, tra gli altri, di don Pino Puglisi, delle stragi di Firenze e Milano, del piccolo Giuseppe Di Matteo.
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