Negli ultimi giorni l'agricoltura siciliana è scossa da una polemica vibrante e mediatica. Mi riferisco alle accuse televisive del tale Alessandro Di Pietro contro la presunta mano mafiosa dietro la produzione e la commercializzazione dei pomodori di Pachino. Dei legami tra le varie organizzazioni mafiose nelle attività dei mercati ortofrutticoli, sappiamo già da tempo. Vittoria-Fondi-Milano, il triangolo della collaborazione tra tutte le
mafie. D'altra parte, poco prima il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso aveva detto più o meno le stesse cose che Di Pietro ha esternato con la sua uscita infelice. Infelice perché solo dopo le inevitabili polemiche il presentatore ha ristretto il campo del "boicottaggio" alle produzioni non Igp, quindi senza disciplinare. Insomma, la politica ha preso a sbraitare, a tutti i livelli. E il centrodestra siciliano ha trovato un altro Di Pietro con cui prendersela. La polemica è strumentale o perlomeno tutto è nato da malintesi e dall'imprudenza di una persona evidentemente non molto ferrata sull'argomento. E infatti la Rai ora chiede scusa per l'equivoco.
Ma in realtà non voglio parlare di questo. Una vera emergenza nell'economia agricola siciliana è nel mercato delle arance. Mio nonno ha coltivato
agrumi per buona parte della sua vita e sento parlare da anni della crisi del settore.
L’Isola è il maggiore produttore italiano di arance, eppure c’è il problema della raccolta, soprattutto quando la produzione supera le aspettative e abbatte i prezzi già estremamente bassi. La crisi colpisce 25mila produttori (93mila ettari coltivati ad agrumi, 98mila lavoratori tra diretti e indotto, commercio escluso). Soprattutto piccoli proprietari terrieri, con appezzamenti di pochi ettari, che non ce la fanno a far quadrare i conti.
Il calcolo è presto fatto. Per produrre un chilo di arance ci vogliono 30 centesimi, mentre i commercianti le comprano tra i 15 e i 25 centesimi al chilo, per l’alta qualità destinata alla tavola. Per il prodotto destinato all’industria (10%), il prezzo è di 8-9 centesimi al chilo per le arance bionde e 10 cent per le rosse. E la manodopera ammonta a 80 euro al giorno. Ecco perché nel settore si punta alla manodopera straniera, con tutto quello che ne consegue: lavoro nero, caporalato, estorsioni. Anche le arance piacciono alla mafia, insomma.
La colpa è anche della grande distribuzione, che impone ai supermercati l'acquisto di agrumi non siciliani. Che costano meno, perché li coltivano lavoratori che costano meno. In Perù, Sudafrica e Tunisia. E a me una volta è pure toccato sentire dagli spagnoli che sarebbe la Sicilia a manomettere il mercato a suo favore... Non bastano gli incentivi e i contributi europei, né i tentativi di conquista dell'estero (Cina compresa). Provare a espandersi e arrivare lontano non è una cattiva idea, ovvio, ma forse la soluzione migliore è puntare sulla qualità.
I costi di produzione sono quelli che sono, i prezzi al dettaglio li conosciamo un po' tutti. Intanto non ci sembra assurdo pagare nove euro per "le arance della salute" della ricerca anticancro. Giusto e lodevole. Però non so quanti siano disposti a spendere cifre simili (3 euro al chilo) al supermercato. Ci si accontenta di pagare anche meno della metà per biglie cerate israeliane.
è vero, bisogna sviluppare il territorio e smetterla col qualunquismo
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